I Sanniti del Sannio, forti e violenti, possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della penisola.

Ad oggi Forchia è un piccolo paese montano che sfiora appena il migliaio di abitanti. Si situa al confine tra le province di Caserta e di Benevento, disteso nella valle Caudina, alle pendici occidentali del monte Castello. Non molte le tracce monumentali ed artistiche: degna di nota la seicentesca chiesa parrocchiale di S. Nicola e la chiesa di S. Alfonso Maria de Liguori, che vanta un singolare campanile decorato da tessere bianche, gialle e verdi. È qui che ebbe luogo una delle più feroci battaglie del mondo antico, durante la Seconda Guerra Sannitica, conflitto che vide i Romani sfidare il rodato e caparbio popolo dei Sanniti: i conquistatori del mondo patirono una delle più brucianti e umilianti sconfitte della loro storia.

A parlarci del guerriero popolo sannita il celebre Theodor Mommsen nella sua Storia di Roma:

Dapprima di stanziarono sui monti lungo il fiume Sangro; di là occuparono in seguito la bella pianura a levante del monte Matese alla sorgente del Tiferno chiamarono Boviano i luoghi delle loro adunanze e dei loro giudizi, posti nel territorio antico presso Agnone, nel nuovo presso Boiano. Il picchio (picus) di Marte guidò il secondo gruppo votivo, da cui ebbero origine i Picenti. Una terza colonia, sotto l’insegna del lupo (hirpus), si stanziò nel paese di Benevento, con il nome di Irpini.

La Campania era in subbuglio. Da ormai 22 anni andavano avanti le a più riprese le note Guerre Sannitiche. Come si svolsero i fatti? I presupposti affondavano le radici nella progressiva espansione romana in Campania, territorio di vitale importanza, in quanto affacciato sul mare, per gli interessi economici dei Sanniti. Più volte, per via diplomatica, i Sanniti provarono ad arrestare il dinamismo romano, cominciando anche a tessere una serie di alleanze al fine di contrastare Roma.

Klaus Bringmann scrive:

Con l’annientamento di Veio (396 a. C.) la città raddoppiò il suo territorio. Intorno alla metà del IV sec. a. C., Roma, insieme ai Latini, acquisì il controllo su di una larga fascia di territorio che si estendeva dall’Etruria meridionale al confine con la Campania. In questo modo Roma e la Lega Latina vennero in contatto con i Sanniti, che a loro volta premevano verso le pianure costiere dell’Italia meridionale. Nel 343 a. C. i Romani ed i Latini accolsero una richiesta di soccorso da parte di Capua, minacciata dai Sanniti, ed estesero la propria sfera d’influenza fino alla Campania settentrionale.

Conquistata Napoli nel 326 a. C., i Romani cercarono una vittoria decisiva sui Sanniti in modo da spingerli alla resa, anche perché esausti causa le tattiche di guerra basate sulle incursioni rapide che non davano possibilità di difendersi adeguatamente.
Ancora Giovanni Brizzi, disse:

Affrontando le genti appenniniche e in particolare la più temibile tra di esse, i sanniti, sul loro territorio, i massicci montuosi del Molise, i Romani furono costretti a muoversi e ad operare all’interno di teatri estremamente difficili; e soprattutto dovettero adattarsi a forme nuove di lotta, come quella della guerriglia, che, in montagna, trovava il suo spazio privilegiato.

Nel 321 a. C. Roma inviò i consoli Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino a capo di un esercito forte di 20.000 uomini nella zona dei Sanniti Caudini per tagliare fuori dal conflitto le aree a ridosso della Campania, per poi proseguire contro Benevento e gli Irpini. Ciascun console condusse la propria legione verso l’odierna Maddaloni, da dove, aggirando il versante meridionale del monte Taburno, avrebbero combattuto insieme. I Sanniti osservarono le mosse degli avversari dall’alto delle loro fortificazioni: Ponzio Telesino, capo dei Sanniti, con uno stratagemma chiuse l’esercito romano nella valle circondandolo, mentre le uscite della gola erano ostruite. Calata la notte, crebbe l’agitazione e la paura alla vista dello scintillio delle ‘ndocce’ sannite: le grandi fiaccole, lunghe tre metri, formate da un fascio di legno massiccio.

Per alcuni giorni i Romani tentarono vanamente di aprirsi una strada, venendo però continuamente rigettati nella valle dalle schiere avverse. Fu la resa: dopo essere stato disarmato all’esercito fu imposto il passaggio sotto il giogo con l’impegno a far pace a dure ed aspre condizioni.

A proposito, Tito Livio scrisse, nel suo Storia di Roma, IX, 5-6:

Si guardavano l’un l’altro, contemplavano le armi che tosto avrebbero dovuto consegnare, il braccio destinato ad essere disarmato, il corpo soggetto alla volontà del nemico. I consoli per primi furono fatti passare sotto il giogo, poi per ordine gli ufficiali furono esposti all’infamia, e infine le legioni a una a una. All’interno stavano i nemici armati, lanciando insulti e scherni; molti furono minacciati con le spade, e alcuni anche feriti e uccisi, se l’espressione del loro volto troppo risentita per quell’indegno oltraggio urtava il vincitore.

In seguito, i Romani, dopo aver accerchiato il territorio del Sannio con la fondazione della colonia di Lucera alle sue spalle, vinsero i Sanniti a Terracina nel 314 a. C. e, presso Bovianum, riuscirono nell’intento di respingere il nemico nei propri territori, la pace fu firmata nel 304 a. C.: si riconosceva l’integrità dei territori in possesso dei Sanniti, ma si sanciva anche la nuova ed ingombrante presenza romana in Campania e Apulia. La battaglia decisiva fu quella di Aquilonia nel 293 a. C., fu così che i Romani conquistarono il predominio nell’Italia meridionale, ora bisognava occuparsi di Pirro e di Cartagine.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia dell’Italia, nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e violenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue.

Scrive E. T. Salmon.

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