Gioacchino Murat, il pioniere di uno stile di vita a Napoli. Un altro punto di vista dello storico personaggio

Urla, fischi, cori di giubilo, cori di scherno, applausi e trepidazione. Questa era l’atmosfera che ha riempito le strade di  Napoli il giorno di San Valentino di quest’anno. E no, non è come state pensando. Non ci si trovava allo stadio per assistere alla partita e no, non c’era in programma nessun concerto di Gigi d’Alessio o Tiziano Ferro per la festa degli innamorati, anzi, il luogo in cui si è creato il putiferio è di quelli importanti, il nobile e sfarzoso Palazzo Caracciolo, ora lussuoso albergo, blindatissimo per l’arrivo di alcuni giovani ragazzi eleganti, pompati e tatuati  a cui erano riservate le escandescenze del popolo napoletano.

Ma gli aitanti giocatori del Real Madrid, sfrontati e pavoneggianti nello sfoggiare il loro stile kitsch e pacchiano non sanno che la libertà di esprimere la cafonaggine la devono a chi a Palazzo Caracciolo, ha dormito, vissuto e persino regnato. Loro e gli altri cuozzi del mondo non sanno che devono il loro stile di vita ad un francese napoletano: Gioacchino Murat, amico e cognato di Napoleone Bonaparte.

Bello, ambizioso, vanitoso, sfrontato, eccentrico esibizionista e teatrale. Questi aggettivi che descrivono la personalità di Murat, bastano per far capire il perché fu subito amato dal ceto popolare napoletano. I suoi gusti estetici e le sue manie di esibizionismo  lo rendevano affine alle comare dei quartieri o degli attori della commedia popolare. Lontano anni luce dallo snobismo aristocratico borbonico e savoiardo, Gioacchino Napoleone come lo chiamavano i più (e lui si incazzava ma non lo dava a vedere) era un uomo sanguigno, passionale e molto, ma proprio molto, cafone. Le sue goliardiche uscite sono entrate nella leggenda: cappelli alti un chilometro e ornate da sobrie  piume rosse e bianche, pantaloni lunghi super aderenti che delineavano le sue “forme” dalla vita in giù, i capelli lunghi e ricci da ribelle e i numerosi e sfarzosi ricevimenti nella sua umile dimora, condensata  da balli, canti e tanto champagne, in compagnia della consorte, la bella, ambiziosa (e ignorante) Carolina Napoleone.

Questo mirabolante stile di vita ha condotto il buon Gioacchino Murat (mai dire Napoleone in sua presenza, anzi d’ora in poi chiamare La consorte Carolina Murat prego, mascheriamo le raccomandazioni), una vita ricca di numerosi screzi, gaffe e storiche figure di merda con le più alte personalità dell’epoca: epico il dissidio tra lui e il vicepreside della Repubblica Cisalpina, di cui metteva in dubbio le capacità militari (probabilmente l’epiteto” imbecille” fu la parola più sobria usata da Gioacchino), la fedeltà della moglie (“cornuto”) e la fedeltà alla Francia (“traditore” o “Higuain” che dir si voglia). Ci andò giù talmente pesante che per fermarlo ci volle l’intervento del cognatone, mentre la moglie cercava di rattoppare con parole dolci un alleanza con i cisalpini mandata in frantumi da Gioacchino con una sparata da vrenzola del rione.

Ma Gioacchino è fatto così, non è un politico, non è un diplomatico, non è un altezzoso e ipocrita aristocratico, lui tra Federico e Salvatore, sceglie sempre Salvatore, senza remore, perché anche se diventò Re ed entrò nei salotti buoni, sempre figlio di albergatore rimase, e un povero con i soldi non può essere milionario, ma un arricchito che ostenta il suo successo alle sagre di paese, restando comunque unito alla sua gente, senza dimenticarla e soprattutto senza mai farla sentire inferiore. Infatti tra le sue tante azioni eccentriche e le sue cafonate (ebbe lui la geniale idea di unire  due paesini come Pollena e Trocchia in un solo comune), anche se fatte con una certa enfasi e un certo entusiasmo che contraddistinguono i napoletani nel bene e nel male, giovarono ai ceti meno abbienti, il cosiddetto “popolino”, criticato, schernito e stigmatizzato, ma che porta nel profondo le radici e le tradizioni di un intero popolo. Gioacchino Murat è stato molto amato dal popolo, perché i suoi eccessi, il suo temperamento, la sua “cuozzagine ante litteram”, gli hanno permesso di abbattere la barriera tra potenti e lavoratori, distruggendo i formalismi ipocriti dei perbenisti, una barriera che ancora oggi porta gli stessi napoletani a volte a prendere le distanze tra loro, in nome di un grado di civiltà superiore assolutamente inesistente. Murat invece era un potente povero, uno scugnizzo francese immerso nel folklore napoletano, unendosi alle passioni, alle tradizioni e anche ai bellissimi limiti intellettuali compensati da una cultura popolare generosa e spontanea.

Questo fa di Gioacchino Murat il più napoletano dei francesi, il principe povero per eccellenza e perché no, 6l protettore laico di una schiera di cuozzi fieri delle loro radici.

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