Ascanio Celestini è tornato a Napoli con Laika, un canto per “un dio dei poveri”, al Teatro Nuovo. Uno dei più grandi autori e interpreti del teatro di narrazione contemporaneo ci racconta di quello che forse farebbe un nuovo Gesù, e che forse dovremmo fare tutti quanti. E ci racconta di un supermercato.

Laika. Quando narra Ascanio Celestini, si materializzano delle storie che lasciano il segno. Penso a Fabbrica, il suo primo spettacolo che ho visto in dvd, alla sua forza cruda, o a Radio Clandestina, sull’eccidio delle Fosse Ardeatine, e a quanto sia necessario ricordare la Storia così.

Rispetto a questo, Laika è qualcos’altroForse, è l’inizio di un nuovo percorso. Dopo Laika ci sarà Che fine hanno fatto gli indiani pueblo?, che sarà messo in scena a Palazzo Reale in forma di studio il 19 e 20 giugno, e poi chissà cos’altro, a chiudere questo ciclo e iniziarne altri.

Laika allora è un inizio. Come la cagnolina sparata nello spazio e mai più tornata indietro, Laika, che vuol dire piccola abbaiatrice. Il primo essere vivente a uscire dalla Terra.  L’essere probabilmente arrivato più vicino a Dio. E da Dio inizia la storia di Laika.

C’è un Gesù qualsiasi di una periferia, che beve sambuca innocentemente e divide 35 metri quadri con Pietro, che guarda un po’ è il suo coinquilino. Però da questi 35 metri quadri questo Gesùcristo non vede più le terre di Nazareth, ma un supermercato, dove si incrociano le vite più tenere e disperate.

In una ricerca di storie degli ultimi, di un dio dei poveri e non dei ricchi, l’occhio di questo Gesù butta sul supermercato: sulla prostituta che ci batte di notte, su quella donna con la testa impicciata che ha perso un figlio e la ragione, sul barbone che chiede l’elemosina là fuori e sta zitto se lo picchiano, sui facchini che fanno picchetto contro padrone, polizia e crumiri.

Tutte queste storie ci portano a scavare negli scarti della nostra società, e ci urlano che solo questi personaggi – buttati, marginalizzati, forse pure un po’ schifosi, ma profondamente teneri – possono ancora essere eroi umani e veri come quel Messia che qualcuno chiamato De André dice sia stato il più grande rivoluzionario. A loro sarà dovuta la nostra futura e immeritata salvezza, casomai ci sarà.

Questo Gesù quando guarda suo padre non vede il Padre che perdonerà loro perché non sanno quello che fanno, ma il dio dei ricchi che non sarà mai dei poveri, perché altrimenti i poveri non sarebbero poveri. A un miracolo di resurrezione o a un battesimo preferisce salire per la prima volta col biglietto sopra un autobus e guardare gli altri passeggeri da pari a pari, e a una via della croce verso il Golgota preferisce buttarsi in strada, fingendosi cieco, per lasciare che i poliziotti bastonino lui al posto di un barbone, che chiedeva l’elemosina fuori il supermercato finché non hanno voluto picchiarlo col manganello, dopo che a essere picchiati sono stati gli scioperanti. Nel nome dei più deboli nei secoli dei secoli amen.

Dalle tante storie intime e belle, sale una preghiera laica, che suona come un gioco di parole e che ci ricorda che, se probabilmente l’essere più vicino a Dio nella storia è stato un cane, è forse il caso che proviamo a essere più vicini fra noi uomini, e abbassare la testa per guardarci tutti negli occhi. Toglierci gli occhiali da sole e dirci che non siamo ciechi, posare i manganelli e dire che non siamo folli, aprire la porta di casa e ascoltare chi ci dice che sta succedendo qualcosa di male là fuori, e che è nostro dovere non tacere.

La stagione del Nuovo di Napoli è finita così, e ha proposto spettacoli di alto livello. Per le novità, aspetteremo l’anno prossimo.

Intanto, più di tutti, io ringrazio Ascanio, che alla fine dello spettacolo è rimasto con noi a parlare, guardarci negli occhi, scambiarci i pensieri. E questo è fondamentale.

Commenta