Allutammata ‘e cunnimma o arreposata, la lasagna, e i suoi affini, è piatto da meditazione. Filosofico.

 Carlo Avvisati 

‘A lasagna… ha dda essere allutammata ‘e cunnimma, scriveva Mario Stefanile a proposito di questo impianto culinario del periodo carnevalesco, specie del martedì grasso napoletano. Un piatto la cui architettura di base ha fondamenta in tutto quanto al mondo abbonda di colesterolo, grassi e trigliceridi. A partire dal salame nzevato, quello che veniva conservato nei vasetti di nzogna perché la carne di porco lavorata con sale, aromi, vino e pepe, non seccasse troppo e fosse teneramente masticabile. Per continuare con pezzi di scamorza e provola come se piovesse e finire con una mmescafrancesca di romano e parmigiano grattugiato per dare profumo e gusto al monumento lasagna. Ovviamente confezionata a strati e ben condita cu nu rraù nel quale hanno galleggiato e nuotato e sudato tracchie e sacicci, di origine paesana, se possibile. Qualcuno più scanzonato, nel ragù ci metteva anche nu poco di cutenella, a maggior condimento e sapore dell’intingolo. Ecco, questa è la base lasagnifera dalla quale poi si sono sviluppate quelle verdi, solo a base di verdure, magari con funghi, e quella bianca fatta con latte, ricotta e formaggi. Su quest’ultima, spesso, sino agli anni sessanta del secolo scorso, c’erano quelli che preferivano una corposa presenza di zucchero, che una volta al forno, caramellava e faceva diventare quella lasagna uno squisitissimo dolce.

Eppure, il Carnevale vesuviano, non si limitava, sino a qualche anno fa, alla lasagna e alle polpette cafoni: solo a base di uova, pane raffermo, pepe, sale, aglio, e prezzemolo e uva passa, ma contemplava anche le chiacchiere, fritte nella sugna, arricchite con una cascata di miele e diavulilli, e il sanguinaccio di maiale. Una squisitezza mai più assaggiata da quando hanno messo fuorilegge il sangue di porco, elemento dal quale ogni pasticciere che si rispettasse sapeva magistralmente ricavare questo dolce al cucchiaio, nel quale era stato sciolto del cacao e che era stato arricchito con cedro e scorzette d’arancia, oltre che con i profumi della cannella e dei fiori d’arancio.   A bocce ferme, e a pranzo finito, tutto poi ruotava attorno al fantoccio di paglia: Carnuale, vestito di tutto punto con vecchi pantaloni e camicia e gilet e giacchetta lisa da portare in giro per la cittadina, piangendone la morte tra frizzi, lazzi, bevute e cantate estemporanee della Canzone di Zeza.

Zeza – si cantava (era Pullecenella, Pulcinella, rivolto alla moglie, appunto Zeza, a parlare) vì ca i’ mo esco / statte attienta a sta figliola / tu ca si’ mmamma, dalle bona scola / cu tutte ste ffigliole / nun la fare prattecare / ca chello ca nun sape se lo po’ mparare”. “Zeza (diminutivo di Lucrezia) guarda che adesso io esco / stai attenta a questa ragazza / tu che sei mamma, dalle una buona scuola / con tutte queste ragazze / non la fare praticare / che quello che non sa lo può imparare “. In effetti, la canzone sceneggiava un contratto di matrimonio, quello tra Vicenzella, figlia di Pulcinella e Lucrezia, e don Nicola Pacchesicco, studente fuori sede, e forse fuori corso, arrivato a Napoli, da altra regione. Il vocabolo “pacchesicco” indica difatti gli studenti non napoletani che prima di partire per la città facevano provvista di ortaggi seccati (era l’antico modo di liofilizzare i prodotti della campagna: melanzane, zucchine, insomma le “pacche secche”) al sole di agosto, che poi avrebbero ripreso con acqua e usati per il pranzo. Per il contratto, il notaio Carnevale, teneva davanti a sé anche un calamaio con inchiostro, una penna col pennino (spesso quell’attrezzo, per essere in tema, lo si recuperava dalle galline che quasi mai però lo “offrivano” di propria volontà) e, infine, il classico quaderno a righe dove stendere i capitolati di matrimonio. Una sorta di elenco, questi ultimi, che i genitori facevano citando per filo e per segno i beni che avrebbero dato in dote ai figli. Brutta, la fine del pupazzo: moriva tra le fiamme che uno scugnizzo aveva provveduto ad accendere perché dalla morte nascesse la vita. E dunque, il giorno appresso nasceva Quaraesema… quaresima, tempo di magra e di privazioni culinarie. E non solo. Una patata con sette penne di gallina ben infilzate e con i capelli fatti dal ciuffo di ravanelli era Quaraesema. Quaraesema secca secca, s’ha magnata ‘a ficusecca, ‘a chiavammo na petrata e ll’abbuccammo ncoppa ô lato. Cantavano gli scugnizzi quando incocciavano in una ragazza alla quale san Giuseppe aveva passato la chianozza… ma questa è una storia che viene più in là.  

 

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