Il Duomo di Napoli tra zeppole, maccheroni e furfanterie
Il Duomo di Napoli, il mito di San Gennaro, la miracolosa tradizione/credenza dello scioglimento del suo sangue: personalmente quando mi trovo a passare al Duomo , o se solo ne sento parlare, la prima cosa che mi viene in mente sono tre giovani chierici adolescenti vissuti nel XVI secolo, e che lì lavoravano nel lontano 1569. Penso a Marco d’Egizio, aiutante del campanaro del Duomo, detto Marcoffo, Albenzio Vitale e Francesco de Bernardo.
La quaresima, il ciclo di prediche più atteso dell’intero anno, i devoti pronti a comprare i banchi nuovi, ma il Carnevale in agguato: la sua dose di trasgressioni vede ovunque, nell’Europa moderna, specie a Napoli, le autorità competenti darsi da fare per arginarne la vitalità. Marcoffo, a ‘capo’ della banda di quei chierici scapestrati, non può assolutamente mancare l’appuntamento con i piaceri di quei giorni festivi. Ma per godere di quei momenti i tre hanno bisogno di soldi, che le loro attività in cattedrale non possono garantirgli: ai margini del carnevale, i tre comprendono che solo rubando o arrangiandosi potranno farsi passare qualche sfizio.
Il Duomo offriva innumerevoli ‘possibilità’ di guadagno: in primis si poteva prendere i banchi un po’ sconnessi e bruciarli al fine di preparare cibi (usanza evidentemente diffusa); la seconda mossa fu l’uso spregiudicato della torre campanaria. Da un pertugio nel muro era possibile andare a rubare nella casa di un medico.
Tutto ebbe inizio nel gennaio 1569, il carnevale era alle porte: sfasciati i banchi, li bruciano nella cappella di S. Restituita, il menù prevede maccheroni e zeppole. Nonostante quelli siano i giorni in cui nobili e borghesi fanno sistemare in cattedrale i banchi nuovi con i propri nomi, controllando se qualcuno faccia il furbo, e nonostante il reclamo di una aristocratica che non trova il suo, i tre la fanno franca, coperti dal canonico della cattedrale.
Il martedì grasso si avvicina, siamo ai primi di marzo, chiunque si voglia godere la festa deve darsi da fare, e i tre chierici hanno già adocchiato nella stalla del medico briglie e staffe di pregio:
‘Marcoffo, prima di avviarsi verso il tetto, finge di chiamare per accertarsi se c’è gente in casa, ma il servitore non abbocca, tace e avverte il padrone. Entrambi si appostano e quando vedono i giovani chierici varcare il confine chiedono spiegazioni. Marcoffo non si scompone. Cercavano solo, risponde, di calarsi nel giardino per prendere arance amare per i consueti scherzi carnevaleschi, avevano chiamato per ottenere il permesso … Il medico non può che acconsentire e assiste in silenzio al salto spericolato di un chierico su un albero e alla discesa degli altri due lungo il muro. Il colpo grosso è solo rinviato, i tre tornano ad occuparsi dei banchi’.
Fu così che trovato un banco nuovo con un piede in cattivo stato lo trascinano verso la torre campanaria dove avverrà la successiva brace ancora a base di maccheroni. Ma stavolta qualcosa va storto: il curioso corteo è intercettato da due chierici mandati in sopralluogo dal sacrestano che, avvertito, chiama a sua volta un altro prete. Il sedile nuovo, dove si scorge ancora il nome della proprietaria, viene recuperato anche se bruciacchiato, mentre gli altri pezzi sono sequestrati. Alla fine del blitz il rimprovero è d’obbligo, un po’ meno la minaccia di vendetta avanzata da Marcoffo al sacrestano.
La notte brava della allegra compagnia non è finita:
‘bisogna prima rubare briglie e staffe (l’operazione va in porto e si conclude il giorno dopo con la vendita della refurtiva e un’abbuffata), poi prevenire gli strascichi dell’incidente. Chiusi dentro la cattedrale, senza chiavi, i giovani decidono di non aspettare la riapertura mattutina, di muoversi subito. Così Marcoffo si cala all’esterno della chiesa con la fune delle campane e va ad avvertire il mediatore prescelto, il padre di Albenzio, che dovrà premere sul sacrestano, impegnandosi a costruire a sue spese un banco nuovo, purché non si faccia ‘rumore’. Ma l’iniziativa fallisce. I tre fanno appena in tempo a saziare la fame con i soldi guadagnati e si ritrovano in carcere’.
Quando mi trovo a passare a via Duomo, davanti alla cattedrale, non riesco a non immaginare quei tre screanzati alle prese con le loro furfanterie, le loro ragazzate, e come se li avessi lì, davanti ai miei occhi.
Ma come finì quella carnevalesca vicenda? Dopo una seduta pesante e nervosa, nonostante le deposizioni minimizzate di cinque ecclesiastici del duomo, i quali premevano per una soluzione bonaria del caso data la giovane età dei rei, la Curia scelse una linea sorprendentemente dura: Marcoffo, ripetutamente e pesantemente torturato per la sua eccessiva malizia e il suo accentuato sarcasmo nei confronti delle autorità, fu condannato insieme ad Albenzio all’esilio triennale da città e diocesi, mentre Francesco, che scelse il silenzio assenzio, pagò con il carcere. Ma si sa come funziona la giustizia a Napoli … pochi anni dopo sono di nuovo tutti insieme sempre al Duomo: ‘Marcoffo era sempre lo stesso, se è vero che il 2 aprile del 1576, querelato da Albenzio per ingiurie, per un morso in faccia e altre violenze, sfuggì alla cattura, anche grazie all’aiuto degli abitanti della casa dove si era rifugiato’.
Chissà se da oggi passando presso il Duomo, oltre al miracolo di San Gennaro, qualcuno di voi veda, proprio come me, quei tre chierici scugnizzi litigare, giocare, vendere e consumare zeppole e maccheroni, scorrazzare qua e là facendosi beffe di tutto e di tutti … magari anche di voi!
Fonti:
M. Mancino, G. Romeo, Clero Criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, Lecce, Laterza, 2013.
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