Il napoletano e il suo carattere tra storia e letteratura
Il napoletano, il suo carattere, i suoi modi di dire, il suo gesticolare, il suo modus vivendi: uno stereotipo che nasce, cresce, ma soprattutto non muore, sfidando secoli di storia.
Come ricorda Galasso:
la fissazione di «tipi» regionali, nazionali o etnici, è un’attività antica almeno quanto i rapporti umani.
Siamo soliti attribuire qualità, buone o cattive che siano, ad altri – gli individui esterni alla nostra comunità – per risolvere il problema della nostra identità. Ad esempio: noi e i barbari, noi e gli infedeli… Se “noi” siamo di Milano e vogliamo “categorizzare” un “altro” proveniente dal sud-Italia, lo chiameremo meridionale se lo stimiamo. Terrone, invece se non ci è tanto simpatico…
Dall’antichità al medioevo, passando per l’età moderna sino ai nostri giorni, qual è quel bagaglio di giudizi, pregiudizi, aggettivi e chi-più-ne-ha-più-ne-metta, che il napoletano si porta dietro sin dalla sua comparsa sul palcoscenico della storia?
Ai Normanni, specie a Roberto il Guiscardo, i meridionali non passarono inosservati sia per l’uso degli zoccoli di legno sia per la parlata fortemente gutturale, ma anche per la loro inettitudine militare, la loro pavidità e scarsa prestanza fisica. La cronachistica normanna ci descrive anche la particolarità delle cerimonie funebri e il noto ‘uso del tu’.
A dare il suo giudizio anche il padre dell’italiano Dante: “Falsità e un dialetto non candidabile come lingua volgare aulica e nazionale”.
Alla metà del XVII secolo Camillo Porzio schematizza una serie di qualità già ben radicate al tempo: l’esser desiderosi di cose nuove, il poco timor della giustizia, alto senso dell’onore, l’amor per l’apparenza. Della Porta dipinge Napoli come città ricca di ladri e di furbi, dove il rischio di esser derubati o ingannati è quotidianità. Giuseppe Pignata osserva quanto i napoletani abbondino di parole nei loro discorsi, anche laddove ne basterebbero ben poche.
Se ci spostiamo in provincia il quadro non è più roseo, infatti non mancano delitti d’onore, vendette, paesani poco inclini ad attività imprenditoriali e manifatturiere.
Georges Berkeley si esprime così: da un lato l’unicità di paesaggi, panorami, arie e sito, dall’altro, una rozza nobiltà, amante dei piaceri e meno dei bisogni del Regno. In modo ironico è descritta anche la devozione e religiosità partenopea.
Ferdinando Galiani sottolinea due elementi significativi, ovvero, l’«inestinguibile allegria» conservata nella gente napoletana, espressa dal talvolta scurrile e osceno dialetto, e la sua emotività che ha effetti sul suo modo di parlare e gesticolare.
È tramite questo accumularsi di impressioni e giudizi, a cui dovremmo aggiungere i lavori di De Boucard, Galanti, e De Renzi, che si forma il cliché del napoletano divulgato nella mentalità corrente dell’Europa moderna e contemporanea. In sintesi: personalità simpatica e apprezzabile per alcune sue doti native, sempre disponibile all’ozio, al lasciar correre, ad aspettare il domani, non amante dei viaggi perché innamorato della sua terra, goloso e ben disposto ai piaceri della mensa, portato al fracasso, eccessivo nelle esaltazioni e nelle disperazioni. Ma soprattutto poco adatto alla vita civile e politica. Un «paradiso abitato da diavoli» direbbe Croce.
Nel XIX secolo, libri di viaggio, scritti giornalistici e pubblicistici, e nel XX, i grandi mezzi di comunicazione di massa, potenziarono i tratti e la diffusione dello stereotipo… ma questa è un’altra storia.
FONTI:
- Galasso, Lo stereotipo del napoletano e le sue variazioni regionali, in L’altra Europa. Per un’antropologia del Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Guida, 2009.
- Croce, Il tipo napoletano nella commedia, in Saggi sulla letteratura italiana nel Seicento, Bari, 1962.
- Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2006.
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