“Sono anni che vivo e lavoro in giro per il mondo ma non vedo altro futuro che a Napoli. Per troppo tempo mi è mancata la sua cultura, i suoi impulsi, la sua anima”. Così Armando Rotondi, accademico, drammaturgo, regista e tanto altro, premio Terre di Campania 2024.

Carlo Avvisati

Se provate a scorrere, magari a bassa voce e senza fermarvi, il curriculum “breve” di Armando Rotondi, napoletano, poco più che quarantenne, drammaturgo di mestiere e poi, ancora, regista, giornalista, accademico, traduttore, studioso di Bracco, Eduardo e Peppino, del teatro contemporaneo internazionale e del teatro est europeo, tra le altre cose, rischiate di restare senza fiato, tanto è lungo e corposo. Lui, Rotondi, è una delle eccellenze campane che il prossimo tredici dicembre, nel salone del Santuario di Madonna dell’Arco, a Sant’Anastasia, dalle diciotto in avanti, saranno riconosciute e premiate con il trofeo Terre di Campania, per aver dato lustro alla loro terra d’origine.

Era questo il suo sogno di ragazzo?

A dire il vero non lo ricordo – confessa Rotondi – perché non ho avuto un sogno solo. Certamente uno dei miei sogni di ragazzo era quello di lavorare nelle discipline umanistiche: sono sempre stato appassionato di storia, archeologia e di letterature. Però, da questo ad affermare che volevo fare il professore universitario, l’accademico o il drammaturgo, ne corre. Devo confessare che quand’ero ragazzino certamente non avevo questo sogno. Sicuramente mi sarebbe piaciuto fare lo scrittore: in particolare monologhi, drammaturgie non convenzionali, racconti, saggi e articoli.  Poi ho cominciato a lavorare come drammaturgo, molto all’estero, meno in Italia.

Come è successo?  

Ho cominciato quando vivevo in Scozia. Poi, ho continuato, andando in Polonia, in Romania, in Germania, in Spagna, ma anche in Slovacchia, Repubblica Ceca e in altri contesti.

Cosa l’ha spinto a farlo?

Una grandissima curiosità. Una enorme voglia di capire cosa c’era al di fuori di me stesso e di quelle che erano le mie origini, pur rimanendo a esse legate. Ovvero, restando allo stesso tempo un cittadino napoletano e del mondo. Vede, io sono legatissimo a Napoli, anche come studioso. Però guardo molto a forme di teatro e di scritture estere perché penso che tutti i posti dove ho vissuto mi abbiano lasciato un segno e dato qualcosa. Sono mosso sempre da una enorme curiosità, sono una persona che ama stancarsi; e se non sono stanco, sopraffatto da input esterni, non mi sento a mio agio e pienamente vivo. Quindi ho sempre avuto curiosità e fame di conoscenza di altre forme di teatro e di altri professionisti. Sono legato a tanti artisti. Penso,ad esempio, a Daniel Wetzel dei Rimini Protokoll o Andy Arnold, all’epoca direttore del Tron Theatre di Glasgow, o molte compagnie teatrali in Spagna, Germania, Gram Bretagna, Romania o Polonia, fra le tante. Ecco, sono sempre stato una persona alla ricerca dei propri mentori e dei propri maestri.

E li ha poi trovati?

Ho due, tre persone che reputo miei maestri. Sicuramente uno di essi è Joseph Farrel che è il mio maestro accademico. Poi c’è Andrew McKinnon, un regista teatralescozzese, ora in pensione, che ho incontrato quando mi sono trasferito in Spagna. Vede, in Andrew McKinnon, che è regista e direttore di teatro britannico, già fondatore e direttore della Laurea Specialistica in Regia presso la Birkbeck, Università di Londra, ho ritrovato il maestro antico, quello che rendeva amabile la conversazione. Amavo parlare con lui perché tutto quello che mi diceva mi dava qualcosa e mi faceva crescere tanto umanamente quanto professionalmente. Pensi che McKinnon è stato uno dei primi a proporre Eduardo De Filippo in Gran Bretagna, al teatro di Perth, in Scozia.

Come fanno i britannici a capire la drammaticità di Eduardo?

In realtà l’Inghilterra non è per forza di cose fredda. Penso a città come Liverpool e Glasgow che hanno quella passione e quella veracità tipicamente napoletana: lì è molto semplice capire la drammaticità di Eduardo. Per esempio ‘Napoli milionaria’ è stata proposta là utilizzando l’accento caratteristico e i modi di Liverpool, che è una città piena di passione. Non esiste una sola Inghilterra, una sola Scozia, ma vi sono tante anime in cui è possibile ritrovare Napoli. Quando ho vissuto per circa 4 anni a Glasgow, da un punto di vita di passionale, mi sentivo molto a Napoli, ne sentivo la passione.

Quali corde tocca per portare la drammaturgia napoletana fuori dell’Italia? 

Il mio lavoro ha una componente fortissima d’impegno sui paralleli, ovvero mi chiedo cosa di me e delle mie origini è riproducibile in altre parti del mondo. Ad esempio, ho realizzato un lavoro in cui metto insieme Viviani e Nagib Mahfuz, uno dei più importanti scrittori arabi di tutti i tempi. Chiaramente creo un parallelo tra l’idea che ha Viviani del vicolo napoletano e quello del ‘Vicolo del mortaio’, al Cairo, il romanzo di Mahfuz. Però la mia drammaturgia lavora anche in spazi non convenzionali come i musei o crea dispositivi multimediali come i podcast,  quasi a livello di radiodramma. Amo molto mescolare diverse lingue e livelli. Scrivo molto in inglese, lingua che dopo il napoletano e l’italiano è quella con la quale mi trovo più a mio agio. 

 

Aveva immaginato da ragazzo di fare tutto questo?

L’impegno enorme c’è sempre stato. Diciamo che rimpiango di non essermi fermato spesso. 

Prego?

Fermato a trovare radici da altre parti. A stabilirmi emozionalmente in altri luoghi. Come, ad esempio, a Barcellona, ultimamente. E questo perché, in fin dei conti, reputo sempre casa Napoli, ed è una casa lontana.  Quindi questo può rappresentare anche un esilio per me. Essere fuori mi è costato soprattutto in termini di rapporti umani, come ad esempio  il non avere una famiglia. Però penso molto a come ero quando stavo al liceo e credo che all’epoca non immaginassi proprio il mio percorso e mai mi sarei aspettato di essere dove sono, di conoscere le persone che ho conosciuto, e dalle quali ho ricevuto qualcosa. Ho un sentimento fortissimo di gratitudine verso tante persone, verso tante cose, per quello che ho ricevuto. E anche per quello che ho perso.

Quanto le manca Napoli quando sta all’estero? 

Tantissimo. È una cosa che sento nelle vene, nell’anima, è una necessità, è un desiderio fortissimo tornarvi. Purtroppo ora sto all’estero, ma in futuro non mi vedo in nessun altro posto se non a Napoli.  Mi sono mancati per tanto tempo gli impulsi. Per Napoli, verso questa mia città, questa terra mia, questa mia cultura, provo una sorta di visceralità. Sono molto orgoglioso di essere napoletano

Che pensa del premio Terre di Campania che le sarà consegnato?

Sono felicissimo, molto orgoglioso, sono davvero felice di questo premio. È una grandissima emozione condividerlo con le personalità che quest’anno, ma anche negli anni scorsi, sono stati premiati. È un riconoscimento che viene dalla mia terra e mi emoziona tantissimo essere lì a riceverlo. 

 

 

 

 

 

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