Il senso del piano della stazione Centrale

Sono due le volte in cui è stato attaccato finora. La prima, quella distruttiva, che lo ha reso inutilizzabile e a cui si è dovuto rimediare con l’acquisto di uno strumento nuovo; la seconda, quella più recente, che pare richieda soltanto qualche ora di accurata manutenzione. Il piano della stazione Centrale ha un senso molto meno ovvio e sciocco di quanto si possa credere, e vederlo tutto ricoperto di fasce da scena del crimine fa un po’ male.

Ricordo di aver visto lo stesso pianoforte a Roma Tiburtina: c’era solo un ragazzino che mi sembrava cinese, bravissimo, suonava Nuvole bianche, ma nessuno stava lì ad ascoltarlo, o ad aspettare che si alzasse per prendere il suo posto: a Napoli quel piano è un’altra cosa.

Quel piano, prima di tutto, ricorda a tutti che c’è sempre tempo per fermarsi. Paradossalmente, la stazione rappresenta tutto il contrario del suo nome.  La stazione è il luogo dove nessuno si ferma. E il piano ti dice: fermati. C’è chi si ferma per sentire, chi per suonare. Qualcuno sottrae uno, due minuti allo stress del viavai. E poi è musica! Un prodigio in piccola scala che sottrae tempo alle incombenze. He ditto niente…

Poi, quel piano ricorda a tutti che nulla ha valore se non è condiviso con gli altri. Neanche un lingotto d’oro, o la cartamoneta, figuriamoci la musica. E, allora, di conseguenza ricorda a tutti che è sempre il momento giusto per donare. Cosa? La propria musica. E questo a Napoli lo si fa bene. A propria scelta, libera, a chapeau, dal jazz alla classica, con o senza spartito, a orecchio, a memoria, quella che sanno tutti, l’ultima uscita, Pino Daniele, ‘O sole mio.

Due messaggi del genere non sono per niente scontati. E per questo, diamine, è incredibile che venga attaccato uno strumento in modo così imbecille, privo di capo e coda. Al precedente attacco si era risposto moltiplicando i pianoforti, posizionandone altri in altre strutture napoletane: e a questo? Si rimedierà. Il piano sarà riparato. Ma mi fanno rabbia principalmente due cose.

Uno: che qualche visitatore potrà passare e non accorgersi di quella mancanza. Perdersi nei clacson che vengono da piazza Garibaldi o dall’annuncio di qualche ritardo. Distrarsi e non pensare chissà che fine ha fatto quella musica. E così facendo, passando senza accorgersene, qualche visitatore potrà perdere quei due minuti di libertà che ogni tanto riescono a riportare un sorriso.

Due: che l’ente che cura lo strumento possa decidere, prima o poi, che “quando è troppo è troppo”, smontarlo da lì, donarlo a qualche ente privato e liberarsi dal peso di un pianoforte utilizzato troppo spesso da qualche ubriacone come sacco da boxe, via, sciò, finalmente tranquilli. E questo, sperando non accada mai, non sarebbe un gesto né idiota né folle, ma solo molto (moltissimo!) demotivante per tutti noi, che potremmo pure pensare: “ce lo siamo meritati“.

Aggiungere sorveglianza intorno al piano, quando sarà riparato, sarà inutile, perché nessuno strumento ha bisogno di una scorta. Però, curare di più tutta la zona della stazione, che rappresenta il primo impatto di chiunque (studente, pendolare, turista italiano o straniero) con Napoli, potrebbe aiutare a rendere il nostro magico pianoforte una delle anime della stazione centrale, e non un bellissimo simbolo che ogni tanto viene dilaniato e poi bisogna sostituirlo.

E ciò non vuol dire prendere gli ubriaconi e cacciarli più in periferia. Quella è polvere sotto il tappeto, e umanamente a me farebbe anche un po’ senso. Dare una mano alle persone in difficoltà, invece, potrebbe essere una chiave da approfondire.

I passi in avanti ci sono stati, ma ciò che succede ogni tanto a quel pianoforte ci ricorda che non sono mai abbastanza.

E allora, camminiamo.

Non troppo piano.

Solo chi spara a una chitarra non ha diritto a una canzone
Davide Van de Sfroos

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