Lo scrittore romano Paolo Di Paolo, intervenuto alla fiera Ricomincio dai Libri, ci offre un interessantissimo punto di vista su scottanti questioni del mondo dell’editoria contemporanea.
Paolo Di Paolo è un giovane scrittore e giornalista. La sua attività spazia dai romanzi alla narrativa per ragazzi, passando per testi teatrali e programmi culturali. È intervenuto alla fiera napoletana Ricomincio dai libri per presentare il suo Mandami tanta vita (ed. Feltrinelli). Lo abbiamo intervistato e abbiamo parlato di giornalismo culturale, editoria e scrittori emergenti.
– Paolo Di Paolo, diviso tra scrittura narrativa e giornalismo. Come vedi oggi la figura del giornalista culturale? Nicola Lagioia al Salone del libro di Torino 2016 disse che quella del giornalista culturale era una figura ormai estinta. Sei d’accordo?
Non credo che sia destinata ad estinguersi. Certo, è una figura in evoluzione e mai come in questo momento in evoluzione accelerata. È come se dovesse reinventarsi non anno dopo anno ma addirittura mese per mese. La figura del giornalista culturale, però, resta fondamentale nei termini di mediazione, soprattutto quando si suppone che debba essere un tramite tra il lettore/fruitore degli oggetti culturali – che sono sempre di più e sempre più mescolati e confusi – e l’autore di quegli oggetti culturali. Non è più un critico, uno specialista accademico, ma non mi piace l’idea che sia un “tuttologo”. Di certo è uno che ha un’attrezzatura superiore da lettore, fruitore di spettacoli, mostre, ecc. e può rielaborare un sapere complesso e metterlo a disposizione del lettore, come una lente per guardare con più attenzione.
Per poter guardare con più attenzione un altro elemento è quello della scelta. Il giornalista culturale non deve “condizionare” la scelta, dicendo al lettore cosa vada letto e cosa no, ma dargli uno strumento affinché la sua scelta sia più facile, soprattutto quando si sente “assediato” dalla moltitudine di oggetti culturali.
– Cosa pensi del mondo dell’editoria attuale, tra self publishing, editoria a pagamento, difficoltà e l’estrema varietà dei libri in commercio, che a volte paiono avere poco a che fare con la letteratura? Pensi che il mercato sia “corrotto” in modo irrimediabile?
In un anno escono circa sessantamila libri, che obiettivamente rispetto al pubblico concreto di lettori sono una sproporzione. Questo non significa che si debba auspicare una riduzione del numero di libri pubblicati, ma qualche domanda va fatta. Chi è che assorbe questi sessantamila titoli? Come fanno questi libri a dire qualcosa a un pubblico sempre più ristretto? Pubblicare tanti libri in sé non è un male, e non è detto che noi ne pubblichiamo più di altri Paesi, ma al centro del discorso va messa la relazione che c’è tra questa mole di libri e i lettori.
Questo porta a una riflessione sul self publishing, che è una grande illusione. È l’illusione che spesso governa le nostre vite al tempo dei social, cioè l’idea che senza avere un “produttore” possiamo arrivare direttamente al mercato saltando le mediazioni. Questa cosa succede una volta su mille, a voler essere ottimisti. Il più delle volte, invece, si traduce in un’illusione che rischia di alimentare un aspetto egotico, un rapporto autoreferenziale con gli oggetti culturali. La convinzione che basta dare a se stessi la “patente” di artisti, con un effetto automatico. Il più delle volte non succede.
Bisogna tornare a pensare che l’editore non sia una figura di contorno, ma un canale attraverso cui passano le proposte e una figura in grado di dare una confezione a queste proposte individuando un segmento di mercato. Perché l’editoria è un mercato. Questa non è una cosa negativa, ma va riconosciuta in quanto tale. Anche il libro di nicchia sta nel mercato. Supporre che qualcuno possa affrontare il mercato contando solo sulla propria forza (e spesso sulla propria arroganza) genera una frustrazione con la quale tutti stiamo facendo i conti.
– Quali sono i tre consigli che Paolo Di Paolo darebbe a un giovane autore per un buon approccio alla scrittura?
Il primo è leggere. Il secondo è leggere. Il terzo, dopo aver seguito i primi due, è acquisire una consapevolezza, che passa per un esercizio molto forte della lettura.
Invece di spedire il manoscritto mettendolo in una busta chiusa o allegandolo a una mail, bisogna cercare di capire come fare un po’ di “militanza” prima di arrivare al passaggio della pubblicazione. Esistono premi seri di letteratura, riviste e blog. Blog che possono dare non tanto la visibilità in senso assoluto, ma l’opportunità di essere letti da un pubblico che non sia quella cerchia ristretta che tende a lusingarci. Il confronto con il pubblico, fosse pure di quarantacinque o mille persone, è la condizione essenziale. Ciò non significa che lo scrittore debba scrivere “per il pubblico”, ma non mi piace la frase, che sento dire troppo spesso dagli aspiranti scrittori, «io scrivo per me stesso». Se scrivi per te stesso evita di confrontarti con il fronte della pubblicazione. Si scrive per un pubblico, e individuare questo pubblico (grande o piccolo che sia) significa accettare di prendere porte in faccia, di essere incompresi. Quello dell’artista che da solo fa il gesto titanico mi sembra un mito di seppellire.