La grande avventura dell’evangelizzazione del mondo antico vide il suo principio tra il 45 e il 48 d. C., allorché Paolo, con l’inseparabile Barnaba, mosse dapprima alla volta di Antiochia di Siria, poi, da lì, verso Seleucia e Cipro.
Fra i più ferventi seguaci di Cristo vi furono senz’altro Pietro e Paolo, indiscussi protagonisti della nuova compagine religiosa, in quanto interpretarono un ruolo determinante nella diffusione della sua dottrina. Un’impresa che segnò un’epoca ed ebbe fine, come noto, con il drammatico quanto eroico e glorioso tramonto dei due martiri.
Quale la loro millenaria missione? E perché la si vuole intimamente legata alla nostra terra, alla nostra Campania?
Paolo, ai natali Saulo, fu cittadino romano, di famiglia ebraica, che, dapprima perseguitò aspramente i cristiani, poi in seguito ad una mirabolante visione, sancì la sua conversione alla nuova fede. Assunto il nome di Paolo, dedicò la sua esistenza alla diffusione della novella cristiana, ottenendo maggiore successo con i cosiddetti gentili, ossia con i pagani, e divenendo l’‘apostolo delle genti’. Ai nuovi fedeli destinò 13 lettere per sollecitarli a perdurare nella fede in Gesù Cristo. Durante la sua predicazione pose l’accento sul valore della fede, più che sulle opere, ai fini del conseguimento della salvezza.
Saulo, nato a Tarso (Cilicia) all’inizio del 1° secolo da una famiglia ebraica farisea piuttosto facoltosa, fu uno dei più accesi antagonisti della nuova religione. Gli Atti degli apostoli riportano della sua presa parte da spettatore all’assassinio di Stefano da parte degli Ebrei, i quali lo giudicarono colpevole di bestemmia: coloro che lapidarono Stefano «deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo […]. Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione […]. Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (Atti 7, 58 e 8, 1-3). La conversione avvenne dopo una caduta da cavallo sulla strada di Damasco, quando ebbe una visione nella quale Gesù lo chiamava proferendogli: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Dopo aver appreso i principi della nuova religione da Anania, si convertì e prese il nuovo nome di Paolo, diventando un certo e determinato apostolo del messaggio di Cristo. A Paolo è attribuita la redazione di 14 lettere, riservate a diverse comunità cristiane da lui istituite o comunque con lui in relazione. La Lettera agli Ebrei si differenzia dalle altre per stile e contenuto in quanto indubbiamente compilata da un altro autore, mentre alcune delle lettere rimanenti sono verosimilmente prodotto dei discepoli di Paolo che le trasmisero sotto il suo nome per conferire a esse più ragguardevole autorevolezza. Nelle lettere principali (indirizzate ai Romani, a Corinzi, ai Galati) Paolo rimarca il primato della fede e della grazia divina rispetto alle opere esteriori: la salvezza è dono gratuito di Cristo, e non frutto di una conquista da parte dell’uomo, il quale non può vantare alcun merito di fronte a Dio: «L’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Galati 2, 16).
La grande avventura dell’evangelizzazione del mondo antico vide il suo principio tra il 45 e il 48 d. C., allorché Paolo, con l’inseparabile Barnaba, mosse dapprima alla volta di Antiochia di Siria, poi, da lì, verso Seleucia e Cipro. Un primo viaggio che proseguì sino a raggiungere l’Asia Minore, sfiorando le celebri città di Perge, di Antiochia di Pisidia, di Listra, di Derbe e dintorni. Le dinamiche dell’evangelizzazione prevedevano abitualmente un primo impatto con le comunità giudaiche per poi indirizzarsi si pagani.
Ma, quasi in tutti i casi, proprio i Giudei accolsero più tiepidamente gli evangelizzatori, tanto che Paolo e Barnaba furono spesso costretti a fuggire, braccati dalle autorità e dalle popolazioni istigate dagli ambienti ebraici. Nonostante queste fughe improvvise, le città toccate da Paolo conobbero presto la genesi e l’evoluzione di comunità vive e guidate da anziani prescelti dall’apostolo delle genti, come era già successo ad Antiochia e a Gerusalemme. (Fabrizio Bisconti)
Nel primo mese del 50 d. C. Paolo intraprese il secondo viaggio: assieme a Sila, Timoteo e Silvano, fondò alcune chiese in Macedonia e in Acaia e, segretamente, a Filippi, Tessalonica, Berea, Atene e Corinto. Nella primavera del 53 d. C. fu la volta del terzo viaggio: Galazia, Frigia, Efeso, Corinto, Filippi e nuovamente Gerusalemme. Proprio qui l’atmosfera si rivelò ben presto sfavorevole: date le accuse dei Giudei, fu arrestato dai soldati romani e trasferito a Cesarea. Processato dal governatore Felice, venne recluso per due anni. Appellatosi alla sua cittadinanza romana, fu inviato nella capitale. Questa la strada che lo condusse in Campania.
Nel settembre dello stesso anno iniziò un viaggio pieno di insidie, che culminò con il terribile naufragio sull’isola di Malta. Qui Paolo soggiornò per alcuni mesi, compiendo molti miracoli, ma poi si imbarcò per Siracusa e da lì mosse verso Pozzuoli. (Fabrizio Bisconti)
Il porto campano, ovvero uno scalo fisso per ogni navigante che, provenendo dall’Africa o dall’Oriente, voleva dirigersi a Roma. Il Cristianesimo si era propagato rapidamente in Campania, forse per la prossimità a Roma, o forse per gli innumerevoli contatti che i porti campani riuscirono ad intessere con tutte le genti del Mediterraneo. A Pompei, e ne sono traccia le pitture di una domus raffiguranti il giudizio di Salomone, era già attestata una comunità giudaica, mentre più ardua risulterebbe la dimostrazione archeologica della presenza in zona dei cristiani nel I sec. d. C., in quanto il celebre segno cruciforme rinvenuto nell’abitazione del Bicentenario a Ercolano altro non pare che l’incavo di un mobile ligneo.
Decisamente più evidenti, anche se più tarde, si mostrano le testimonianze archeologiche certamente cristiane riferibili alla città di Napoli: alla fine del II sec. d. C. furono scavate e adornate con tematiche cristiane le Catacombe di San Gennaro a Capodimonte.
Napoli si presenta come un unicum in cui sono indissolubilmente fusi mito, storia e bellezza, un luogo ove natura e cultura esprimono ad ogni angolo le loro prodigiose e incessanti trasformazioni; la città è in grado di conservare nello stesso tempo la memoria storica e ugualmente interpretare la vanità delle ambizioni, delle fedi dell’uomo, della caducità della vita, della ineluttabilità della morte. In tal senso, le Catacombe di Napoli, celebri e suggestive reliquie del cristianesimo primitivo locale, rappresentano fonti piuttosto preziose e rare: rimandano ad una straordinaria testimonianza delle idee e delle aspirazioni dei cristiani delle origini, attraverso le pitture, le iscrizioni, le architetture sotterranee.
Le catacombe sono l’emblema dell’intreccio tra la vita e la morte, tra il sacro e il profano, tra la storia e le leggende, tra il mistero e la memoria. Dalle catacombe emerge una religione molto più diretta e semplice di quella che ci risulta dalle opere letterarie e teologiche, le quali dipendono principalmente dalle discussioni dottrinali. Scavare le tombe nella roccia, che per Napoli fu il compatto tufo giallo, è stata senza dubbio una pratica di uso comune per migliaia di anni; tuttavia solo i cristiani hanno lasciato un così gran numero di monumenti di importanza storica, religiosa e artistica. Le catacombe di Napoli offrono una varietà eccezionale di espressioni architettoniche negli ambulacri, nei cubicoli e negli arcosoli scavati nella monlitica roccia vulcanica. (Giovanni Liccardo)
Attraversando la Campania, Paolo giunse infine a Roma. Sono gli Atti degli Apostoli (28, 14-15) a darci notizia della dinamica di queste ultime fasi del suo viaggio:
E così arrivammo a Roma. E di là i fratelli, che avevano sentito le nostre peripezie, ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando li vide, Paolo ringraziò Dio e prese coraggio.
I cristiani di Roma dovevano conoscerlo piuttosto bene, non solo per la notorietà del suo pensiero e la fama della sua azione missionaria, ma perché, già nel 57 d. C., furono destinatari di una lunga lettera dell’apostolo che condivideva loro il desiderio di un imminente incontro. Fu questa la ragione che spinse un cospicuo gruppo di fedeli ad andargli incontro lungo la regina viarum, la via Appia, raggiungendo addirittura la statio di Tres Tabernae, distante oltre cinquanta chilometri dalla capitale; altri si inoltrarono sino a sessantacinque chilometri dalla città.
Di lì a qualche anno, la comunità cristiana di Roma – secondo quanto rammenta Tacito – diverrà un’ingente moltitudine, tanto che neppure la violenta persecuzione neroniana riuscì ad arrestarla. A questo proposito e per concludere questo breve excursus sulla vita di paolo da Tarso, occorre ricordare la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 a. C., quando a Roma divampò il più catastrofico degli incendi della sua storia. Un evento tremendo, intimamente legato alla tragica e gloriosa fine di Pietro e Paolo. Sebbene gli storici siano concordi nell’attribuire le responsabilità del disastro a Nerone, le colpe furono però addossate ai cristiani. La persecuzione fu istantanea e feroce, interessando dapprima coloro che confessarono di aver aderito alla nuova religione e poi molti altri. Pietro e Paolo caddero vittima di queste persecuzioni, l’uno crocifisso, l’altro decapitato (Tertulliano, Scaorpiace, 15, 3).
Il martirio sarebbe avvenuto nel 67 a. C.
La fine tragica di Paolo comportò il supplizio per decapitazione che, secondo le norme riservate ai cittadini romani, fu eseguita fuori dalle mura della città. La tradizione vuole che la decollatio sia avvenuta al III miglio della via Ostiense, in un sito definito ad aquas Salvias, dove si può ancora ammirare un complesso di santuari. (Fabrizio Bisconti)