Il XVII secolo, i Viceré di Napoli tra pestilenze, eruzioni, terremoti e Masaniello
Da un lato un periodo di fioritura per la storia napoletana, dal XVI secolo alla metà del XVII l’espansione demografica, civile ed economica, la crescita urbanistica, l’affermazione dell’arte e della cultura, lo splendore e la grandezza della monarchia spagnola, le certezze assolutistiche e controriformistiche; dall’altro una fortuna che svanisce nei decenni centrali e finali del XVII secolo, la crisi economica e demografica, il declino delle fortune spagnole, il malessere sociale culminato nella rivolta di Masaniello (1647-48), la peste del 1656, le eruzioni del Vesuvio come quella del 1631, l’Europa culturalmente e civilmente superiore: questa la cornice entro la quale i viceré spagnoli del’600 si trovarono ad operare.
Il Conte di Olivares (27 novembre 1595-luglio 1599)
Tra i viceré che, assieme al Toledo, fregiano ancora con i loro nomi le vie della città di Napoli: Enrico di Guzmán, così si chiamava, sbarcato a Pozzuoli nel novembre 1595, fatta la solenne entrata in Napoli, trovò una situazione disastrata: carestia cittadina e scorrerie turche dal mare. Invece di far fronte a tali problemi, decise però di insistere su altri problemi creando provvedimenti di polizia che vietavano i giochi d’azzardo e prammatiche che accrescevano il controllo sulla tipografia. Sotto il suo governo fallì il banco dei Mari, e i depositanti si precipitarono a ritirare i propri capitali. Ebbe rapporti difficili con la nobiltà cittadina, fu coinvolto nelle guerre di religione in Francia (a causa della sua ostilità nei confronti di Enrico IV). Ebbe il merito di una migliore cura per gli uffici pubblici. Molte le opere edilizie: Domenico Fontana diresse il restauro delle costruzioni portuali e l’apertura della strada del Piliero. In città furono costruiti depositi portuali. In più Fontana curò il rifacimento dei monumenti sepolcrali degli Angioini nel Duomo. Sotto il suo dominio, incominciarono anche i lavori per la costruzione del palazzo del Monte di pietà.
Primo conte di Lemos (luglio 1599-19 ottobre 1601) e il figlio Francesco (20 ottobre 1601-5 aprile 1603)
In questo periodo cominciano i lavori per la costruzione del palazzo reale di Napoli, che avrebbe dovuto sostituire quello di Don Pietro di Toledo. Il biennio del Conte Lemos è memorabile in primis per la congiura di Tommaso Campanella. Il filosofo sarebbe stato capo e legislatore di un complotto imbastito contro l’autorità spagnola e quella ecclesiastica al fine di instaurare la repubblica. Arresti, condanne, esecuzioni capitali: Campanella venne chiuso in Castel Nuovo, torturato, interrogato, si salvò solo fingendosi pazzo. Il biennio va ricordato anche per il problema dell’annona: essendo scemato il peso e la qualità del pane, fu necessario presidiare con le truppe la città, minacciando persino di bombardarla dai castelli.
Il Conte di Benavente (6 aprile 1603-11 luglio 1610)
Nel gennaio 1605 una grande funzione religiosa impegnò il Conte di Benavente e tutta la cittadinanza, per l’aggregazione di san Tommaso d’Aquino come ottavo protettore di Napoli dopo Gennaro e gli altri santi. Nel 1605, dopo Gennaro, Atanasio, Aspreno, Agrippino, Severo, Eufebio e Agnello, quindi, ecco l’ottavo patrono di Napoli, il primo proclamato in età moderna. Intorno a questa proclamazione si annoda una significativa questione ideologica e di prassi religiosa della Chiesa tridentina nella sua versione napoletana. Infatti dalla fine del XVI secolo venne a determinarsi una vera e propria “corsa al patronato”, in cui lo spirito tridentino trovò una sua dimensione caratteristica e rivelatrice. Alla luce di questo va letto quanto accadde nel giro di settant’anni: i patroni di Napoli da sette passarono a quindici.
Ma i problemi gravi erano i soliti: l’approvvigionamento di risorse, con le usuali risposte, divieti e proibizioni, e le razzie dei Turchi sulle coste campane e del regno, cui si tentò di rispondere con una spedizione dagli esiti ininfluenti a Durazzo. Con il Benavente si pongono le basi per la ribellione del 1647. Infatti, il 21 ottobre 1603 fu vietata la vendita di generi alimentari nei monasteri, nei luoghi pii, nelle carceri, dove si faceva mercato nero a prezzi maggiorati; nell’agosto 1606 viene imposta la gabella sulla frutta, alimento dei poveri, balzello che provocò proteste e disordini. In compenso, però, Napoli fu abbellita con altre fontane, la più celebre fu collocata a S. Lucia.
Pedro Fernadez de Castro, secondo Conte di Lemos (giugno 1610- luglio 1616)
Il suo nome è legato all’Accademia degli Oziosi, da lui stesso voluta con Giambattista Manso. Fecero parte dell’Accademia il Marino, il Della Porta, il Basile, il Capaccio e alcuni spagnoli. Altra accademia sorta poco dopo fu quella degli Infuriati, fondata da Francesco Carafa d’Anzi con orientamento filosofico e naturalistico. I problemi della difettosa situazione economica c’erano motivi strutturali e una secolare incapacità di sviluppo: gruppi di mercanti stranieri venivano nel paese e vi svolgevano attività commerciali (specie i genovesi). Ma poiché i mercanti immigrati non erano mai gli stessi e nel giro di una generazione si ritiravano, il processo ricominciava ogni volta, senza che si formasse una classe di imprenditori con capacità di iniziativa. Altra costante era che il regno era costretto a subire una forzata partecipazione alla dilatazione della politica bellica spagnola, il maggiore contributo in termini di mezzi e denaro spettava proprio al Mezzogiorno.
Le esigenze della Spagna comportarono come avveniva abitualmente la richiesta dei soliti donativi e contributi straordinari: furono imposte gabelle sul vino, sui salumi, sullo zucchero, sulle scarpe. Intanto, in conseguenza del divieto di fabbricare fuori dalle mura, i palazzi del centro si elevavano fino a trasformarsi in veri e propri grattacieli del tempo di sei o sette piano ciascuno. Per mettere ordine nella contabilità dello Stato napoletano e per risanarne le finanze separò le entrate assegnate ai creditori da quelle che rimanevano certe, per la quale amministrazione fu istituita la Cassa militare, cui fu attribuita la competenza delle spese di guerra, difesa, polizia, lavori pubblici, stipendi.
L’opera più famosa, connessa al rinnovato slancio culturale, fu il palazzo degli studi. Modificato successivamente, il palazzo è oggi sede del Museo Archeologico di Napoli.
Il secondo Duca d’Alba (26 dicembre 1622-agosto1629)
Antonio Álvarez de Toledo è legato a Napoli per la Porta che da lui fu fatta aprire nel 1625, la nota Port’Alba. Il solito problema fu quello monetario, mentre la soluzione fu una l’imposizione di una gabella di un ducato sulla vendita di ogni botte di vino. Fu affrontato anche il problema dell’ordine pubblico vietando la fabbricazioni di armi corte, facilmente occultabili. Altre disposizioni riguardavano il corso delle monete, i cambi, gli uffici giudiziari, la vendita degli schiavi. Provvedimenti furono presi anche in vista della peste nel 1624. Seguirono altre calamità nei tre anni seguenti: i Turchi dopo aver assalito Sperlonga razziarono le coste del Cilento; terremoti colpirono il regno tra il 1626 e il 1627.
Il Conte di Monterey (14 maggio 1631-13 novembre 1637)
Badò innanzitutto ai problemi economici: decise di sequestrare un terzo delle rendite degli arrendatori. Egli predicava di aver cura dell’annona e di favorire il popolo contro i nobili.
Le gabelle imposte alla popolazione raggiunsero cifre spropositate. Nel dicembre 1633 fu chiesto il solito donativo, e quattro anni dopo ci fu un’altra richiesta, sebbene incontrasse la netta opposizioni dei sedili di Nido, Capuana e Porto. Il viceré continuò ad inviare uomini e denari sui teatri di guerra. Altre spese belliche per la difesa del regno erano sostenute dai feudatari.
Evento risaltante l’eruzione del Vesuvio del 16 dicembre 1631, seguito da varie scosse sismiche. Da rammentare anche le scorrerie turche da Centola, a Vico, fino a Napoli, sulla spiaggia di Posillipo.
Il Duca di Medina (13 novembre 1637-6 maggio 1644)
Durante il suo regno la crisi economica dilagava. Il regno fu ancora più tartassato. La concessione dei donativi alla corona spagnola divenne affare dei seggi, i quali, pur non contribuendo, decidevano per tutto il paese. Il 27 marzo 1638 ci fu un terremoto assai disastroso per la Calabria e non poco pauroso anche per Napoli. Non mancarono le scorrerie turche, e andava profilandosi il pericolo di un’invasione francese. La flotta francese apparve davanti Napoli a metà settembre, ma gli sbarchi a Nisida e Bagnoli furono respinti.
Famosa la porta da lui inaugurata posta presso l’Ospedale dei Pellegrini, ovvero porta Medina.
Il Duca d’Arcos (11 febbraio 1646-19 gennaio 1648) e Don Giovanni d’Austria
Sono gli anni della rivolta di Masaniello. Giungeva all’apice il disastro politico-economico della Spagna con i suoi domini: vedi Catalogna e Portogallo. I francesi attaccavano e tramavano in varie parti della penisola.
In questa critica situazione da Madrid arrivò, nell’autunno del 1646, la gravosa richiesta economica di un milione. I sedili approvarono il donativo, le imposte votate per la sua copertura furono quattro: sulla “bonatenenza” (rendite dei forestieri e dei regnicoli assenti), sul tabacco, sul legname, sulla frutta (10 carlini a cantàro per la frutta secca e 5 o 10 per la frutta fresca, secondo la stagione). Il malcontento non tardò a manifestarsi. Come abbiamo visto, nel ‘600 le premesse della crisi vi erano tutte: la pessima situazione demografica, economica, agraria. Negli anni ’20 del XVII sec. la crisi cominciava a dilagare in provincia (crisi alimentare, fiscalismo sfrenato, carestie ed epidemie), la causa? Il peso del consumismo napoletano. Napoli era come un enorme testa su di un gracile corpo. L’aumento della pressione fiscale portò nel 1636 il debito pubblico alla cifra di 46 milioni di ducati. Come si colmava? Le terza, le tasse che si pagavano ogni sei mesi; i fiscali, le imposte dirette che gravavano sui fuochi (a Napoli non si pagavano); gli arrendamenti, ovvero le entrate indirette, dazi e gabelle. Lo stato poi venderà fiscali e arrendamenti ai migliori offerenti o li appalterà a privati con introiti immediati, non potendo aspettare un anno per le rendite.
Il dominio spagnolo suscitò l’alto livello, smisurato, della pressione fiscale, che a sua volta scatenò tensioni e rivolte contro il mal governo. La rivolta napoletana, una protesta antifiscale contro una gabella sull’introduzione della frutta a Napoli, coniugava il malcontento popolare e le aspirazioni del ceto civile, Masaniello e i magistrati, funzionari, giuridici. Si contestava il mancato rispetto delle tradizionali libertà napoletane e l’eccessiva arrendevolezza dell’aristocrazia (i sedili) di fronte alle pretese spagnole.
Ma la parte della nobiltà e soprattutto del ceto civile, i ceti medi rappresentati nel governo cittadino, che appoggiarono inizialmente la rivolta, ben presto ne presero le distanze. La folla fu accusata di una spropositata violenza, ma in realtà i suoi attacchi furono limitati e mirati specificatamente a colpire le persone e le cose degli appaltatori delle gabelle e gli altri addetti alla riscossione delle imposte. Il popolo civile, spaventato dalla piega incontrollabile presa dagli avvenimenti, decise di eliminare Masaniello. Il campo moderato allora si trovò ancora più diviso tra una fazione moderata, che chiedeva riforme del sistema fiscale senza mettere in discussione la lealtà della corona spagnola, e una fazione radicale che invece arrivò a proclamare la repubblica. Nelle campagne la rivolta assunse caratteri antibaronali. Qui fu chiesta protezione regia, autonomia locale sotto tutela della corona contro i soprusi dei signori feudali. Ma alla fine le divisioni politiche erano altrettanto forti e finirono col prevalere. Nessun centro governatore, troppi Masaniello, la guerra civile implose; la contesa portò la crisi agraria e quella alimentare. L’unico fronte unito era quello della nobiltà con la monarchia, ai rivoltosi mancava la maturità per prendere auto-consapevolezza, ma soprattutto una guida borghese: questi i motivi che portarono la rivolta all’epilogo.
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