I tifosi sono una specie senza tempo, un boato che solca i millenni, tradizioni, atteggiamenti, norme, consuetudini e passioni che non cessano, nel bene o nel male, di esistere. Dalle antiche e intramontate Olimpiadi alla pallacorda del XVII secolo, il tifo da sempre eccita gli animi e i cuori all’estremo.
I tifosi, quanto ne sappiamo di loro e della loro arte, il tifare?
Non ha importanza dove si è nati, quando come e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita. (Pier Paolo Pasolini)
Quante volte abbiamo udito uno stadio esplodere di gioia ad un goal tanto atteso e sperato? Quante volte il San Paolo, l’Arechi, il Vigorito o il Partenio si sono infiammati per una grande vittoria, scudetti, coppe o promozioni, o semplicemente per la giocata di un amato beniamino? I tifosi sono una specie senza tempo, un boato che solca i millenni, tradizioni, atteggiamenti, norme, consuetudini e passioni che non cessano, nel bene o nel male, di esistere. Dalle antiche e intramontate Olimpiadi nate in Grecia alla pallacorda del XVII secolo, il tifo da sempre eccita gli animi e i cuori all’estremo.
L’etimologia chiarisce il fenomeno. L’espressione tifo è riconducibile alla radice sanscrita dhu, che equivale a dire agitare, eccitare, muovere, e dal greco thyphos, ovvero vapore, fumo, ardore, febbre: la ragione e il senno dei tifosi (amatores, in latino, per gli antichi Romani) non è forse temporaneamente annebbiata e il cuore posto in progressivo movimento? Del resto le emozioni che oggi il calcio è in grado di donare ai suoi tifosi non distano molto da quelle che animavano il pubblico negli anfiteatri romani o gli aristocratici alle prese con la pallacorda. Una “febbre da stadio” che ha contraddistinto l’uomo per millenni, tutti ne sono rimasti contagiati, dai più umili villici ai signori di ogni epoca.
È dalla fine del XIX secolo che il calcio seguita ad essere la disciplina sportiva più amata al mondo: fu allora infatti che gli inglesi ne formalizzarono le regole, divulgando la buona novella a macchia d’olio in Europa e in America Latina.
Ma la palla, come dicevamo, fa dare in escandescenza tutti, da sempre. A partire dal XII secolo, in terra inglese e francese le genti impazzivano per il folk football (soule per i francesi), disciplina che coniugava per certi versi calcio, rugby e hockey. Lo scopo? Sempre lo stesso, spingere la palla “in meta”. La particolarità stava nei mezzi per raggiungere il fine: non solo i piedi, ma anche mani e bastoni. A darsi battaglia per le strade in occasione di festività erano team di vari villaggi, e il numero dei partecipanti andava dalle poche decine alle centinaia. Incontri tranquilli? Null’affatto, “atleti” e tifosi se le suonavano di santa ragione.
Senza dubbio, si trattava di una disciplina violenta, tanto da arrivare a registrare morti e feriti. Nei secoli dell’Alto Medioevo il football era diventato un passatempo comune sia nei villaggi sia nelle città, e una serie di editti intervennero per vietarlo, controllarlo, limitarlo. (David Goldblatt)
Ecco allora fiorire le prime severe norme “anti-hooligan”, come quella che nel 1314 vietò di giocare a palla sulle strade londinesi. Gli Hooligan furono una facinorosa famiglia irlandese, da qui il termine inglese che indica i tifosi.
Altrettanto caotici furono gli incontri di “calcio in livrea” che si svolgevano a Firenze su incoraggiamento dei Medici, i quali miravano in tal modo a rinsaldare il loro appeal sul popolo. Un entusiasmante connubio di rugby, calcio e lotta libera che trascese le barriere locali appassionando tutti i fiorentini, che andarono ad identificarsi con le squadre simbolo dei propri quartieri. Nemmeno la guerra poté fermare la brama di sport, tanto che il 17 febbraio 1530, per istigare le truppe di Carlo V che asserragliavano la città, i fiorentini organizzarono un incontro ancora oggi rievocato annualmente.

Non da meno fu il tennis: se i suoi tifosi sono noti oggi per la loro compostezza, un tempo non fu esattamente così. Il tennis ante litteram era attrattiva per fiumane di tifosi rumorosi e scommesse da capogiro. Nel Seicento, all’interno di saloni principeschi, i nobili gareggiavano alla pallacorda, perdendo vere e proprie fortune. A pagarne caro prezzo fu il fair play. Conosciamo bene il celebre caso del Caravaggio (1571-1610), che nel 1606 depose la racchetta, e, impugnando la spada, uccise Ranuccio Tomassoni, proprio in conclusione di un acceso incontro.
Dissoluto, omicida, pazzoide, ma anche originale, profetico, ribelle: sono alcune delle mille facce di Michelangelo Merisi… Il suo “periodo napoletano” ha inizio a causa di alcuni fastidi con la legge che lo portarono a fuggire da Roma; fatti riconducibili agli eventi immediatamente successivi all’assassinio di Ranuccio Tomassoni, avvenuto il 28 maggio 1606 presso il Campo Marzio, in seguito a un fallo durante il gioco della pallacord… fu dichiarato reo di assassinio; contro di lui venne pubblicato un bando capitale, assimilabile ad una condanna a morte in absentia. (Giovanni Liccardo)
Nell’Ottocento grande seguito ebbe la “palla col bracciale”, quando in molte zone del Centro e del Nord Italia furono edificati un po’ ovunque impianti sportivi ad hoc (“sferisteri”) capaci di contenere migliaia di tifosi. Il gioco era simile al tennis, si respingeva la palla nel campo avversario impugnando un manicotto di legno. Questo sport stregò letteralmente Edmondo De Amicis (1846-1908) e Giacomo Leopardi (1798-1877), lo sport classico degli italiani come ebbe a dire Jacob Burckhardt.
Ma non solo i giochi con la palla, i tifosi nel tempo sono stati sempre più infervorati da una vera e propria “febbre da cavallo”. Nei Comuni medievali numerosi erano i palii e le giostre, competizioni equestri allestite in occasione di ricorrenze religiose: il Palio di Siena scatena ancora incontrollabili passioni, nello spirito degli abitante e delle contrade senesi poco o nulla è cambiato. Tuttavia furono senz’altro i Romani i precursori delle corse moderne, fu così che edificarono ippodromi nei quattro angoli del loro impero. Il circuito per antonomasia fu il Circo Massimo di Roma, con un potenziale di 250 mila spettatori, dove quotidianamente patrizi e plebei potevano assistere a diverse ed entusiasmanti corse di carri. A sfidarsi le principali “scuderie” dell’epoca: i Verdi, gli Azzurri, i Bianchi e i Rossi.
Il tifo a volte sconfinava nell’esagerazione e nella follia: Galeno (medico greco del II sec. d. C.) diceva che si arrivava persino ad annusare lo sterco dei cavalli in gara per accertarsi che fossero nutriti bene […] Sappiamo della passione di Caligola per la squadra Verde, che lo portò ad avvelenare gli avversari; anche Vitellio uccise chi parlava male della squadra Azzurra, mentre Lucio Vero, fratello di Marco Aurelio, scriveva quotidianamente per avere notizie dei Verdi e del suo amato cavallo Volucer, di cui si fece fare una miniatura d’oro. (Federica Guidi)
Ma non poteva mancare in questa rapida carrellata un caso tutto campano.
I gladiatori furono vere e proprie star, osannate dal pubblico, strapagati e contesi dalle donne. Per loro il tifo spesso degenerava in violenza, e le ragioni trascendevano le rivalità delle fazioni in campo celavano rivendicazioni politiche o territoriali, qualcosa di molto simile a quanto avviene con molte tifoserie in Italia oggi. Un episodio del 59 d. C. giunge a noi grazie ad un celebre affresco pompeiano (oggi al MANN) e al racconto riportato negli Annali di Tacito. È proprio il caso di dirlo, a Pompei finì a cazzotti. L’affresco raffigura la celebre rissa esplosa tra le tifoserie di Pompei e di Nocera, eterne rivali, anche per motivi economici. I fatti si svolsero sia dentro che fuori l’antico anfiteatro della città (risaliva al 70 a. C., poteva accogliere fin a 20 mila spettatori su tre livelli di gradinate).

Nell’anfiteatro di Pompei, durante uno spettacolo, scoppiò uno scontro tre le tifoserie di Pompei e Nocera. Motivo: gli abitanti di Pompei erano risentiti per la trasformazione in colonia di Nocera (con questo atto Pompei perdeva parte del suo territorio). I tumulti danneggiarono soprattutto i nocerini: molti rimasero uccisi. Il Senato sancì la squalifica dell’anfiteatro per dieci anni. La decisione fu revocata dopo pochi anni da Nerone, forse per consolare gli abitanti della città nel 62. Risultato: gli amatores (i tifosi) riebbero la loro arena e Nerone divenne l’idolo dei pompeiani. (Massimo Manzo)
Se oggi i gruppi di tifo organizzato, gli ultrà, fanno ‘tremare’ le autorità competenti, un tempo divennero talmente potenti da far tremare addirittura l’imperatore Giustiniano. Ci riferiamo ai Verdi e agli Azzurri che da sempre rivali all’ippodromo di Costantinopoli, emblema di opposte correnti politiche e religiose. Nel 532, a seguito di una punizione inflitta da Giustiniano ad alcuni prepotenti, reagirono, si allearono, fino a mettere a ferro e fuoco la capitale dell’impero romano d’Oriente. La rivolta di Nika (vittoria, grido dei tifosi durante le competizioni) mise a dura prova l’imperatore, che, segregato a palazzo, fu messo in salvo in extremis dalle truppe di Belisario, il quale represse nel sangue le baraonde.
In conclusione, forse, vale la pena chiedersi solo una cosa: l’importante è partecipare?
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