Il Prof. Antonio Sena recensisce il romanzo di James Jones, Beat Edizioni 2018. Un invito a riflettere sull’inutilità della guerra.
Due citazioni introducono questo romanzo. Una è da una ballata di Kipling, ed è la celebrazione del ”Tommy” inglese dei suoi tempi, il soldato di fanteria (come tutti i tedeschi erano Fritz e tutti i russi Ivan e gli americani John, tutti gli inglesi erano Tommy ancora durante la seconda guerra mondiale), con la sua giubba rossa, cacciato dai locali, derubato quando è sbronzo, che ritrova la sua piena utilità quando deve servire come carne da cannone. Ne trascrivo dei versi che non sono propriamente quelli scelti dall’autore ma rendono bene il senso del libro: “The drums begin to roll, my boys, the drums begin to roll / O it’s “thin red line of “heroes” when the drums begin to roll”. “I tamburi cominciano a rullare, ragazzi miei/ Oh questa e la sottile linea rossa “di eroi”, quando i tamburi cominciano a rullare.”
Ma non meno significativa è la seconda citazione, un adagio del Middle West: “Tra i sani di mente e i pazzi c’è solo una sottile linea rossa”.
A lettura terminata (impegnativa lettura di un romanzo di 500 pagine e volte ripetitivo, e in alcuni passaggi, sospetto, volutamente ripetitivo), ci si accorge che queste due citazioni inquadrano perfettamente le due ondate emotive che si incontrano e si sovrappongono in tutto il libro: il “lavoro” sfibrante della fanteria (dire “epopea” sarebbe decisamente fuori luogo) e quella vena di follia che percorre le decisioni dei comandi, le azioni degli uomini, le loro intime fantasie.
Scritto nel 1962 da uno che era stato in quel grande mattatoio che fu l’isola di Guadalcanal nel 1942, “La sottile linea rossa” spiazza il lettore da un doppio punto di vista: non è celebrativo ma non è neanche costruttivo nel suo anti-eroismo, non ha il fuoco sacro della polemica umanitaria e pacifista. Ho spesso riflettuto su quella frase secondo la quale la guerra rivela il peggio e il meglio dell’uomo e credo anche di condividerla in buona parte, ma leggendo questo romanzo mi sono reso conto che è già in buona parte retorica.
Nel romanzo di Jones quella che domina è una grande, melmosa mediocrità degli uomini ad ogni livello, dagli ufficiali ai sottufficiali, ai medici, ai soldati semplici. È la guerra ad essere sostanzialmente un’attività mediocre, le grandi strategie, le grandi manovre e le grandi imprese sono frutto per lo più di ricostruzioni postume. Ognuno cerca di adeguarsi alla parte che sta recitando, gli atti di coraggio possono essere casuali e quelli di solidarietà possono avere le cause più varie, non ultime una vena di follia o una prova con se stessi, o meglio con il se stesso che si vuole sia ricordato.
La storia della Compagnia Charlie, dallo sbarco nell’isola (potenti le pagine che raffigurano il primo incontro con i morti e i feriti) sino alla conquista di alcuni capisaldi e al momento del reimbarco, è frammentata in tante storie che segnano il battesimo del fuoco per tutti. L’autore si configura come un narratore onnisciente che spesso anticipa l’evento e poi lo racconta analizzando minutamente pensieri, fantasie, ricordi del protagonista di quell’evento, scomponendo l’unità individuale in una serie di contrastanti reazioni. In questa prospettiva non hanno senso gli atti di coraggio e di solidarietà, di fedeltà e di umanità, possono sicuramente esserci ma spesso in circostanze assolutamente imprevedibili e con motivazioni contorte che possono nascere anche dal contrario di quelle apparenti. E i vari Doll, Dale, Fife, Witt, nella diversità delle loro storie, ci dicono che la guerra è in fondo una sfibrante attesa di quei momenti di azione il cui è esito è affidato sostanzialmente al caso e e alle imprevedibili reazioni della psiche umana. È anche una lacerazione profonda che solo una tenace memoria selettiva potrà rendere sopportabile per il resto della vita.
“Forse, lunghi anni dopo la fine della guerra, quando ciascuno si fosse costruito le difese di menzogne rispondenti alle sue necessità, e avesse ascoltato per un periodo sufficiente quelle altre menzogne che la propaganda nazionale avrebbe allora distillato per loro, avrebbero potuto tutti andare all’American Legion come i loro padri e parlarne entro i limiti di una data base razionale che permettesse loro di continuare a rispettarsi. Tra loro avrebbero potuto fingere di essere uomini. Ed evitare di ammettere che una volta avevano visto in sé qualcosa di bestiale che li aveva terrorizzati. Ma in realtà la maggior parte di essi lo stava facendo proprio allora. Di già.”
È il soldato Bell, ingegnere oltre la trentina, già tenente del genio dimessosi per non lasciare la moglie ed arruolato adesso come soldato semplice, che intesse spesso riflessioni del genere con un acume che può solo sfociare però nel più totale disincanto. Gli uomini non sopravvivono alla guerra. Mai. Al massimo i loro corpi.