Un’immersione dentro “Il ventre di Scampia”, raccolta di poesie fiorite sul fertile cemento della periferia.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo di Francesca Vaccaro, che potete trovare nella versione integrale  sul blog “Lunja e le sue parole sommerse” https://lunjaparolesommerse.altervista.org/dialogo-poetico-con-lo-scrittore-emanuele-cerullo/

 

Emanuele Cerullo è un giovane scrittore, poeta e insegnante che ho incontrato per la prima volta casualmente, il 2 dicembre 2023, in occasione di un appuntamento del Caffè letterario di Scampia. Già solo l’esistenza di questo club di lettori dovrebbe capovolgere ogni idea preconcetta su questo quartiere e far venire voglia di visitarlo.

 

Su Scampia è stato detto tanto, negli ultimi anni, per questo non é necessario soffermarsi  su un quartiere che  affascina ma che, in fondo, é ancora troppo poco conosciuto. D’altra parte, credo che l’unico modo giusto per conoscerlo sia adottando una prospettiva interna, cioè attraverso lo sguardo e la voce di chi è stato partorito da questa colata di cemento piombata sul verde.

Dai diamanti non nasce niente… Dal Ventre di Scampia, invece, il 29 aprile 1993, è nato Emanuele Cerullo.

Certamente l’essere cresciuto nella vela celeste, in un contesto considerato “difficile” (anche se io trovo più adatto l’aggettivo “complesso”), l’essere figlio della crisi, come lui stesso si definisce, ha influito in maniera decisiva sulla sua personalità, così come sulla sua scrittura, che ne è il riflesso.

“ll mio vivere è qui

tra muri scritti e degrado assoluto.

Il mio vivere è qui,

in questo posto abbandonato dal divertimento,

conquistato dalla violenza,                 

trafitto dalla camorra.”

Tuttavia, come per ogni scrittore, è molto riduttivo dire che “viene da…”, poiché, in realtà, uno scrittore, così come un lettore, appartiene a ogni luogo che i suoi occhi hanno percorso attraverso quella porta incantata che sono le pagine dei libri: un poeta, uno scrittore, ha vissuto in ogni luogo che hanno abitato i personaggi dei suoi libri e di quelli che ha letto.

Così, in questa sorta di poetica ubiquità, Emanuele, pur avendo sempre vissuto a Scampia, ha vagato insieme a Rimbaud per le banlieues parigine, o per le borgate romane, insieme a Pasolini, autore particolarmente caro allo scrittore, che lo ha metaforicamente trasportato nel suo quartiere in una poesia:

“Avresti, sai

lottato per abbattere le vele

E cambiare oceano;

avresti, sai

giocato a calcio

in camicia e cravatta

col futuro

impresso negli occhi nostri

non lontano dalle case

abusive per necessità;

avresti, sai

poetato coi garzoni

dell’illegalità;

qua, dove l’indifferenza

non è mio coprifuoco,

sgorgano

le tue ceneri invisibili,

Pier Paolo.”

La sua fedele compagna, in tutti i suoi viaggi, letterari e geografici, immaginari e reali, sembra essere quella che in una poesia Emanuele Cerullo definisce zingara diversità. Lasciamo dunque che lei, questa zingara diversità, ci prenda per mano e ci conduca alla scoperta dei suoi versi.

Partiamo dalle parole, perché tutto inizia con loro e a loro ritorna, perché per chi scrive sono linfa vitale, nutrimento quotidiano, rifugio e, talvolta, àncora di salvezza. Parlaci del tuo rapporto con le parole e di com’è nato il tuo amore per la poesia. Da dove sgorgano i tuoi versi?

Le parole nascono da dentro e dentro arrivano, per questo non dovrebbero essere esternate solo per dar fiato alla bocca, perché hanno un peso, una dignità. Il mio rapporto con le parole è abbastanza elastico, perché la mia lingua cambia a seconda delle circostanze, delle persone… Il mio interesse per la poesia è nato, in realtà, grazie al rap, che ha svolto una funzione molto importante nella mia formazione, in un momento delicato della vita che è quello della prima adolescenza, in cui si forma l’identità e in un periodo storico particolarmente difficile sia a livello nazionale e globale (la crisi economica), sia a livello locale: la faida di Scampia. Ho iniziato a comporre versi alle medie, ma ancora non sapevo che fossero poesie: fu la mia insegnante di italiano a rivelarmi che non si trattava di canzoni, bensì di testi poetici. Il primo incontro con i grandi classici, come la Divina Commedia, è avvenuto grazie ad una fortuita coincidenza: mio fratello lavorava all’epoca in un deposito di libri, ha tratto in salvo dei testi destinati al macero e me li ha donati. In un contesto sociale molto difficile, caratterizzato da violenza e povertà, nonché da una grande solitudine – non mi sentivo affatto accolto dai miei coetanei – la scrittura era per me una valvola di sfogo. Il mio desiderio era quello di esprimermi, di affermare la mia identità, quello che ero. Nel 2016 (a 12 anni) ho composto 300 poesie: non si trattava, quindi, di una semplice ispirazione, ma qualcosa di quasi nevrotico.

 

Alcune poesie della raccolta Il ventre di Scampia appaiono molto curate da un punto di vista formale, sembrano rivelare, dunque, un grande labor limae. Puoi raccontarci qualcosa in più sulle tue scelte metriche?

Apparentemente, può sembrare che ci sia un grande labor limae, in realtà nella raccolta Il ventre di Scampia, ho seguito più il suono, la parola come suono. Ho cercato di seguire i dettami simbolisti e di inserirmi nella tradizione novecentesca che ha rotto gli schemi metrici.

 

 

“Vele spiegate, vene scoppiate

e vite raccontate, ferite,

cadute, rialzate: demolite

riqualificando queste vele spiegate,

vene scoppiate: sere abusate

come una donna che tace

nell’angolo infame dell’apatia.”

La tua lingua madre è il napoletano, la lingua degli affetti e della famiglia. Eppure hai scelto di comporre le poesie della raccolta “Il ventre di Scampia” in italiano. Parlaci del tuo rapporto con queste due lingue e di questa scelta. Hai mai scritto poesie in napoletano o pensi di farlo in futuro?

Ho scritto alcuni testi in dialetto ma non li ho mai pubblicati, però non escludo di farlo in futuro. In realtà, all’interno della raccolta sono presenti alcuni dialettismi come uaglione, c’è dunque una presenza del vernacolo, ma molto scarna. Credo che il dialetto, essendo una lingua prevalentemente orale, sia più appropriato a produzioni destinate a un’esposizione orale. La scelta di scrivere in italiano, invece, è legata alla mia concezione di un rapporto intimo con la parola scritta, le mie poesie sono dunque pensate per essere lette interiormente, meditate in solitudine. Finora non ho mai pubblicato poesie in dialetto. Ho scritto, invece, dei componimenti che vorrei tradurre dall’italiano al dialetto poiché si tratta di poesie destinate a mia madre e desidero ricercare un linguaggio a lei più vici Il ventre di Scampia (Neomediaitalia, 2016)

La domanda sulla lingua ha suscitato una piccola digressione, come spesso è accaduto nel corso di questa intervista fatta di “domande frattaliche”, come le ha definite Emanuele, cioè contenenti altri interrogativi. Siamo quindi passati a parlare del suo rapporto con le radici, e della concezione pasoliniana della cultura come si qualcosa che “corrompe”. In una tua poesia parli della paura d’esser colto, giocando sull’omografia tra il participio passato di cogliere e l’aggettivo colto. A cosa ti riferisci?

L’idea stessa di parlare italiano è molto borghese e questo mi spaventa perché la cultura è qualcosa di borghese… Ho il timore di allontanarmi troppo dalle mie origini, di distaccarmi dalla realtà, quella più cruda. Condivido la visione pasoliniana della cultura che corrompe. Sono cresciuto in un contesto molto problematico in cui, fin da piccolo, ho dovuto imparare a distinguere il bene dal male e ho dovuto impegnarmi per diventare l’opposto del modello che avevo di fronte tutti i giorni. Talvolta, però, mi chiedo se non mi stia allontanando troppo dalle mie radici, fino quasi a parlare una lingua diversa da quella dei miei lettori, cioè delle persone del mio quartiere.

” Con la camorra io c’ho parlato,

vive qua, vive là: di rimpetto;

alla porta di casa ha bussato,

più volte m’ha lasciato il biglietto

[…]

e le mani ha impugnato sul banco,

ha sorriso mostrando i suoi denti,

non rifiuta gl’umani confronti:

m’ha risposto con fare già stanco:

«io ti so da bambino: giocavi;

ti vedevo lontano dal sole

nel tuo nido provavi e volavi

solo con le tue sane parole.”

In una lunga poesia, Reminiscenze, affermi di aver contratto la sindrome dell’abbastanza. A cosa fai riferimento?

Essendo cresciuto in un contesto familiare, sociale che mi ha privato del tutto mi sono dovuto accontentare di ciò che è abbastanza, di ciò che può bastare. Questo è la sindrome dell’abbastanza: dover accettare una situazione, è la descrizione di uno status quo. Ho imparato a distinguere e ad accettare, fin da piccolo il bene e il male. Le mie poesie sono anche il risultato di quest’accettazione.

In una poesia ti definisci “figlio della crisi” e in un’altra affermi di aver “scontato la pena di abusiva opacità”. Puoi spiegarci il significato di queste espressioni

“Figlio della crisi” è un’espressione metastorica, che fa riferimento alla crisi economica, di cui la mia famiglia ha pagato le conseguenze. La pena di abusiva opacità è la consapevolezza di appartenere a una categoria inferiore della società. L’opacità indica la marginalità, e al contempo il fatto che esiste un altro tipo di opacità reputata dagli altri più degna.

Un tuo verso recita: “M’è ricchezza questa zingara diversità”. Credi che questa tua concezione della diversità sia uno stimolo, un aiuto anche nel tuo lavoro di insegnante?

Assolutamente sì, perché la normalità non esiste, ma la diversità sì. Noi ci riconosciamo nell’altro, nell’urto che si sprigiona dalla consapevolezza di essere diversi. Questa è la grande scoperta, in ogni ambito, anche linguistico, relazionale… ed è uno stimolo a conoscere se stessi e anche tutto ciò che è altro da noi. Quindi anche nella mia esperienza di insegnante la diversità è un elemento centrale, indispensabile, per aiutare i ragazzi a demolire i propri pregiudizi e le proprie certezze, perché bisogna aver paura anche delle proprie certezze.

Per concludere, una domanda su ciò che move il Sole e l’altre stelle. Nella poesia Il mio vivere è qui dichiari “Nel mio vivere qui ho capito cos’è l’amore”. Questo componimento appartiene alla seconda parte della raccolta, che comprende i testi scritti durante l’adolescenza, quindi probabilmente la tua concezione dell’amore è cambiata. A cosa pensi, oggi, quando pensi all’amore?

Penso alla conoscenza, ad una conoscenza spietata, non filtrata, ad una conoscenza che muove davvero il sole e le altre stelle, ma quelle che abbiamo dentro, che ci porta a riconoscere le stelle sul nostro cammino: una conoscenza che parte da dentro e che assorbe l’esterno, come una piccola scossa interna, che ci fa andare oltre la staticità.

 

 

 

 

 

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