Gigi Viglione presenta la propria mostra fotografica dal titolo “Apparizioni”. Presso la galleria Mediterranea di Napoli, dal 23 gennaio al 3 febbraio.
Torna alla Galleria Mediterranea Apparizioni, la mostra di Gigi Viglione già presentata la scorsa estate ad Ischia nella splendida cornice dei Giardini Ravino. I 22 scatti seguono il ritmo intimo e meditativo dell’esistenza stessa dell’autore, porzioni di vita, attimi rubati ad una quotidianità densa, prepotente, raccontata con un taglio, come ama dirci lo stesso fotografo, quasi cinematografico.
Le foto in mostra, ciascuna compiuta in sé, tracciano, in una più ampia visione di insieme, un racconto lungo una, dieci, mille vite in cui la nostra città che fa da sfondo si costituisce mero pretesto scenografico per riproporre un universo sensoriale unico ed inconfondibile dal forte potere evocativo.
“Immagini del paesaggio quotidiano e visioni interiori sono i temi dominanti delle ventidue fotografie raccolte in Apparizioni. Un racconto nel mio tempo e in spazi della mia vita, uno storyboard cinematografico lasciato volutamente a una libera interpretazione.
Tra marine, navi, architetture di isole, fòndaci oscuri ed improvvise luminosità, realtà deformate, volti nascosti, solitudini di corpi, ho composto un racconto in cui utilizzo il congegno fotografico nel suo naturale ruolo di rappresentazione del reale fino alla necessità poetica della sua scomposizione”. Gigi Viglione
“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”
(Michelangelo Antonioni)
Due testi tratti dal catalogo della mostra, firmato Babel Edizioni
Ceci n’est pas une pipe. E questo non è un libro né tampoco un catalogo di fotografie.
In pieno terzo millennio pubblicare un libro può, a buon diritto, essere definito un coraggioso gesto di resistenza umana; pubblicare un libro di fotografie qualcosa di simile a un’azione eminentemente rivoluzionaria; pubblicare un libro di fotografie realizzato amorevolmente con cura artigianale, un’impresa che ha del prometeico. Potrebbe più comodamente essere definito, rovesciando un luogo comune da new age, un atto di gentilezza per nulla a casaccio e assolutamente pieno di senso: ma se si dovesse incontrovertibilmente trovare una definizione per questo oggetto esso può a buon diritto essere indicato come un’eterotopia. Perché, come essa, spezza e aggroviglia i luoghi comuni, perché a minare il linguaggio e a devastare la sintassi non sono solo degli spazi, i cimiteri, i manicomi, le camere d’albergo e i treni ma anche delle idee. Come quella che avete tra le mani: un ircocervo, la chimerica assurdità di un oggetto raffinato ma per niente lezioso, curato ma senza affettazione alcuna. L’oggetto insueto che state sfogliando potrebbe banalmente essere uno spicilegio di immagini sparse e, se lo si dovesse descrivere a chi non l’ha ancora maneggiato, essere confuso distrattamente con uno dei tanti volumi paludati adatti alla preclara funzione di essere disposto in maniera acconcia su un tavolino da caffè già onusto di altri inutili tomi. È invece, più ambiziosamente, il primo esperimento di un modo di fare le cose, del tentativo di connettere sensibilità diverse ma non divergenti, gli entusiasmi differenti di fotografi, grafici, narratori, di sperimentare interazioni tra modi eterogenei di raccontare, dello sforzo di trovare una sintesi tra contenitore e contenuto.
Osservando queste immagini ci si accorge che di tutto c’era bisogno a corredo di esse tranne che di un inutile parergo, di una digressione sulla storia che raccontano questi scatti, lasciando semmai il compito a ogni spettatore di ricostruire una delle infinite possibili storie, reinterpretando all’infinito in maniera gustosamente combinatoria la propria sequenza, la propria narrazione, il proprio racconto. Appropriandosi di una materia che non deve essere guardata con deferente e distaccato ossequio: ma come un partecipe, appassionato, intenso, salutare, insopprimibile, gioioso, libero, entusiasta, felice gioco. Per definire il quale ho usato nove aggettivi: gli stessi che un piccolo francese alla ricerca di un tempo perduto, usava per descrivere il lift del Grand Hotel
di Balbec.
Divertitevi a trovarne altrettanti per raccontare ciò che vedrete.
Diego Nuzzo
APPARIRE E TEMPO – lo scatto filosofico di Gigi Viglione
Il pittore Georges Braques affermava che l’arte è una ferita che si fa luce. Nelle foto di Gigi Viglione, invece, è la luce che si fa ferita. Ferita a morte.
La morte e il tempo sono temi centrali, costitutivi della fotografia: si scatta al presente per tramandare il passato al futuro. E per citare quello che è stato forse il filosofo più importante e controverso del ‘900, Martin Heidegger, il futuro esprime l’orizzonte temporale più proprio e caratteristico dell’uomo.
È infatti con una decisione anticipatrice, secondo il filosofo tedesco, che l’essere umano si apre agli aspetti più reali e autentici della sua esistenza: l’Esserci e l’Essere-per-la morte. Ma questa decisione, presa al presente e proiettata nel futuro, proviene dal passato, dall’essere stati gettati nel mondo, proprio come le persone, i singoli Esserci, e gli oggetti, gli enti utilizzabili ma spesso inutilizzati, ritratti da Gigi Viglione.
L’essere nel mondo, l’Esserci di Heidegger è un trascendere attraverso l’autoprogettazione.
E però, nelle foto di questa mostra, se progetto c’è stato, è, appunto, al passato, un passato costellato di participi: una piattaforma protesa sul mare, un ombrellone chiuso sulla spiaggia, un fondaco che ha perduto la sua funzione, un traghetto salpato, palme che qualcuno ha piantate, architetture già edificate, seggiole impilate dentro e fuori le chiese e i resti di una sedia di plastica abbandonati sulla sabbia, un volto femminile stampato su un manifesto affisso…
Ma mentre l’analitica esistenziale di Heidegger pretende di studiare la realtà umana nella sua struttura, per Gigi Viglione la struttura della realtà e dell’uomo sono inattingibili e la sua fotografia si “autolimita” alle apparizioni, laddove il “limite” è la vera condizione umana, come le Sacre Scritture e la mitologia greca ci hanno insegnato.
Apparizioni s’intitola la mostra. Ma tanti sono anche i nascondimenti: il buio della notte che oscura il mare; nuvole che offuscano l’orizzonte; il riflesso di un vetro che impedisce di vedere al di là e un manichino che latita sul margine dell’inquadratura, parandosi davanti a un altro; un muro che cela delle tombe; un pavimento di mattonelle esagonali bicolori occulta la rigida divisione controriformistica tra bene e male; un telo teso ad asciugare che vela l’interno di una loggia procidana; la cortina di un ristorante che ripara i clienti dalla curiosità, propria e altrui; un poster che tappezza una porzione di muro con uno dei paesaggi partenopei più celebri. Un paesaggio che, per casuale simbolismo, si offre
lacerato all’osservatore. E, ancor più simbolicamente, il lacerto mancante è in alto a sinistra.
Delle due scelte esistenziali che Heidegger pone all’uomo, conquistare sé stessi nella propria autenticità o immedesimarsi nel mondo perdendosi nella banalità quotidiana e scadendo nell’anonimia, è la seconda opzione che sembra prevalere in queste foto di luoghi senza persone e di persone senza volto.
Forse solo una fa eccezione, quella che riprende di schiena una ballerina tra le braccia di un uomo, l’unica che ritragga più di un soggetto umano in un unico scatto, l’unica che trasmetta vigore, anziché vuoto, incertezza, attesa, dismissione, abbandono. Forse perché, per progettare e progettarsi, il singolo individuo non basta, è necessaria una pluralità. Come avverte il poligrafo Guido Ceronetti: ‹‹Uomo, da solo sei fango, in coppia sei tango!››.
Singolare e plurale sono due binari esistenziali paralleli tra i quali siamo sempre chiamati a decidere, ma entrambi immettono in un tunnel, come icasticamente ci rappresenta uno degli scatti di Viglione. L’Esserci contemporaneo, però, pare aver perso la capacità della scelta anticipatrice: esita, si ferma, si blocca tra l’uno e il due, finendo, proprio come L’Angelus novus di Walter Benjamin, col dare le spalle al futuro. Ulteriore testimonianza che la temporalità è l’orizzonte su cui si staglia la visione fotografica di Gigi Viglione, e, forse, della fotografia tout court.
Martin Heidegger lascia deliberatamente incompiuta la sua opera, Essere e Tempo. Perché il linguaggio…
problema fondamentale di cui ne va la possibilità stessa della filosofia di salvarsi dalla chiacchiera e dall’equivoco …il linguaggio non basta. La vera parola umana è il silenzio.
E muta è la fotografia. Muto, o quasi, il cinema di Michelangelo Antonioni, che ha fatto dell’incomunicabilità la sua poetica e, con mirabile coerenza, il suo destino finale. Un maestro dell’immagine il cui pensiero e la cui prassi hanno, almeno in parte, ispirato Gigi Viglione per questa mostra, scandita da sequenze. Un pensiero che, proprio come quello heideggeriano, ‹‹abbandona la soggettività per orientarsi verso la luce dell’Essere››.
Anzi, dell’Apparire.
Elettra Carletti