Ciro Campanile, chef vesuviano, pluripremiato in Italia e all’estero, racconta a Terre di Campania il mestiere d’impiattare i sapori e i profumi della sua terra.

Carlo Avvisati

 

Cinquantuno anni, sposato, due figli maschi, Ciro Campanile, chef pluripremiato é tra i più noti in Italia, vesuviano doc: abita a Boscoreale, è premio “Terre di Campania” 2024 per la gastronomia. 

Ovvero, uno dei quattordici destinatari del riconoscimento che, nato da un’idea di Maddalena Venuso e Giuseppe Ottaiano, viene assegnato annualmente nel salone del santuario di Madonna dell’Arco, a Sant’Anastasia, ai talenti campani che per classe, intuito e tenacia si sono fatti strada nel loro settore, diventandone eccellenze e testimonial nel mondo.   

Ho iniziato la carriera da chef – rivela Campanile – che non avevo ancora venti anni.  Agli inizi degli anni Novanta lavoravo già al Majestic – Vesuvio di Napoli con lo chef  Giancarlo Elba, uno dei maestri italiani,  che ha studiato e lavorato  con Gualtiero Marchesi. Alle spalle avevo gli anni trascorsi a imparare il mestiere alla scuola alberghiera a Ottaviano, prima, e poi a Napoli, a via Manzoni. 

 

Quando ha terminato la scuola, che ha fatto?

Dall’Istituto professionale sono uscito con il titolo di studio di “addetto ai servizi della ristorazione“  ma non mi sono fermato perché  ho continuato a studiare e a lavorare,  partendo dal livello più basso: facevo il garzone, perché è così che si comincia e s’impara l’arte.

Da ragazzo pensava di fare questo mestiere?

La cucina mi è sempre piaciuta. Sono stato anche fortunato perché ho cominciato avendo già una base: mio cognato Camillo Matrone era già uno chef affermato.

Immaginava di poter arrivare a essere un grande chef?

Non sono arrivato ancora da nessuna parte. Questo è un mestiere che è sempre in evoluzione e a me è sempre piaciuto farlo con molta umiltà. Ho affiancato chef di livello e ho appreso sempre il meglio. E questo tenendo conto che quando abbiamo iniziato era davvero  complicato fare questo mestiere, perché gli chef  di allora non erano come siamo oggi noi, che spieghiamo come vanno fatte le cose. Loro si nascondevano i quaderni, non ti davano mai una ricetta. Magari erano ricette che tenevano un secolo di vita e che loro avevano ricevuto da altri chef quando c’era stato il passaggio di consegne. E allora tu dovevi “rubare” il mestiere con gli occhi. Dovevi osservare attentamente i passaggi, carpire e  valutare  le dosi. Si giravano di spalle e prendevano e guardavano  il loro quaderno, che era una vera a propria “Bibbia” per ciascuno di loro. Adesso spieghi tutto ai ragazzi e “nun se ‘mparano”

Quanto è stato difficile cominciare? 

È stata dura. Pensi che ho iniziato giovanissimo: a diciassette anni già facevo le stagioni estive. E lavarsi le giacche e stirare la divisa quando sei poco più che un ragazzino, è dura. Quando i tuoi coetanei vanno a divertirsi e tu devi lavorare è terribile. Ma questa è la nostra strada. Così come era duro stare lontano dalla famiglia durante le feste: il nostro mestiere prevede che si lavori quando gli altri si divertono. La nostra soddisfazione è accontentare sempre l’ospite e farlo sentire a proprio agio. Le feste, comandate o meno, io non le ho più conosciute da allora. 

Però, c’è soddisfazione… 

Certo: ho avuto una grande evoluzione, nel mestiere, e grandi soddisfazioni. Ho sperimentato tanti modelli di servizio e di cucina. Ho fatto catering, ho conosciuto una Napoli di altissimo livello, ho fatto eventi di grande spessore; ho affiancato chef stellati e mi sono confrontato con loro; ho conosciuto altre tipologia di cucina, come la trattoria, nella quale gli stimoli sono sempre gli stessi, e anche superiori magari, perché ci si scontra con la tradizione. Ecco, ancora oggi, come le dicevo, continuo a imparare. 

Che pensa del premio Terre di Campania che viene conferito alle eccellenze che hanno onorato il territorio e portato le nostre specialità anche all’estero? 

Questo premio per me è una grande gratificazione. Sono onorato di averlo ricevuto, perché portare i nostri prodotti in giro per l’Italia e all’estero e farli conoscere è davvero un onore. Portare i nostri prodotti a Papa Francesco, ad esempio, così come al segretario di Stato del Vaticano è stato davvero gratificante. Ecco, far conoscere il “piennolo” in Vaticano come anche il panettone prodotto con la “pellecchiella”, che è un’albicocca del Vesuvio, è stata una grandissima soddisfazione. 

Quanto conta il territorio nella sua cucina? 

É un elemento fondamentale. Vede, io ho ridato nuova vita in cucina ai tanti prodotti che ricordo venivano usati quando ero poco più che un ragazzino. Quei sapori, quei profumi, le tante specialità di quest’area, che allora si utilizzavano e che in questi anni si sono in gran parte perduti, come i saporiti e profumati “San Marzano” o il pomodorino dello “spugnillo”, schiattato sul pane e condito con olio e origano asciugato al sole, o anche  a zuppa di castagna e porcini, oggi sono diventati di nicchia. Pensi che ho recuperato il piatto antico di “fagioli e scarole” guarnendolo con crostini di pane. Ecco. Questo è quello che nella mia cucina sto recuperando. Davvero con grande soddisfazione nostra e di chi gusta questi grandi piatti della tradizione.  

(ndr: immagini dal web)

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