In cinque mesi Napoli da «delitia d’Europa» a «sepolcro e cimiterio puzzolente». Le vittime furono circa 500.000, circa i 4/5 della popolazione. Tuttavia, anche in frangenti così drammatici, l’anima carnale di Napoli trovò il modo di esprimersi.

A Napoli nulla può frenare il desiderio d’amore e di amare. Nemmeno la drammatica epidemia di peste del 1656 riuscì a porre rimedio a un grattacapo che da tempo affliggeva i vertici della curia arcivescovile. L’intento di regolarizzare le famiglie di fatto, nella prima metà del XVII secolo, a Napoli, non fu raggiunto se non in parte.

Il contesto. Il bilancio complessivo rivela fin da subito il parziale successo degli interventi: alcune migliaia di scomuniche, meno di 50 irruzioni domiciliari, carcere e multe per i recidivi, trattamenti di favore per preti e chierici affinché non fosse lesa, e quindi tutelata, l’immagine del clero, un numero imprecisato di famiglie di fatto disintegrate, figli privati di genitori, donne infamate e disonorate, in fuga o esiliate. Un fuoco di paglia, in molti casi per fortuna. Tuttavia, sebbene l’ampliamento degli aspetti repressivi, il quadro non era così rincuorante per le autorità. Resistenza passiva di molte coppie, violente reazioni femminili, indomabili vite disordinate, convivenze prematrimoniali tra fidanzati, in più il peso delle tradizioni, degli interessi, dei tempi della vita e, perché no, l’indifferenza generale di parroci, confessori e visitatori apostolici: le autorità ebbero le loro gatte da pelare.

Arriva l’epidemia. Aggredire il quotidiano con pesanti mezzi d’interdizione era impresa assai ardua, quei pochi risultati che si ottennero furono frutto dello zelo di pochi, del resto governare quel «paradiso abitato da diavoli» era compito proibitivo. Le trasgressioni non furono placate neppure dalla spaventosa epidemia di peste che dilaniò la città nel 1656: l’irrequietezza e la passionalità con cui i napoletani reagirono a un evento così tragico lasciò di stucco anche i più avveduti uomini di chiesa.

La peste era giunta a Napoli in marzo, o forse prima ancora, ma nessuno se ne rese conto. Eppure alcuni segnali vi erano stati: strani decessi all’ospedale dell’Annunziata, celebre luogo di cura, ma non fu abbastanza affinché si potesse percepire il pericolo imminente e inoltre il male non colpiva la città da oltre un secolo. In maggio le vittime si moltiplicarono a dismisura, a partire dal Lavinaro, l’inquietudine cominciò a scuotere gli animi di alcuni, benché medici e autorità negassero, ormai, l’evidenza.
La situazione precipitò: la processione di san Gennaro fu, il 6 maggio, l’ultima cerimonia religiosa celebrata regolarmente (chissà, occasione di ulteriore contagio). Di fronte all’inevitabile moltiplicarsi di morti misteriose, non fu più possibile nascondersi dalla tremenda verità, prese così il via la ricerca irrefrenabile di probabili cause e urgenti rimedi.

Agli abitanti non mancò di certo la fantasia, ciascuno reagì a suo modo: pezzi di baccalà marciti, polveri velenose, soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna, nemici dalla Spagna venuti ad avvelenare i napoletani, l’ira divina. Una parte della città «si pose in devotione», affollando chiese, confessionali, processioni, altri iniziarono una caccia all’untore, altri ne approfittarono per innescare sollevazioni popolari. Tutte occasioni di contagio. Il 27 maggio, nel corso di un improvviso e violento tumulto,una donna forestiera, sospetta untrice, fu uccisa e trascinata da una folla di persone indiavolate. La stessa folla catturò un gruppo di stranieri, poi sottratti con fatica al linciaggio, «carcerati a Palazzo»: erano in possesso di polveri che un collegio di medici giudicò micidiali. Stessa sorte toccò a un soldato il giorno seguente.
Il viceré, preoccupato dall’insorgere di nuovi tumulti e dalla prospettiva della proclamazione di nuovi Masaniello, ordinò una raffica di esecuzioni capitali, spegnendo ogni possibile fuoco di rivolta col sangue.

A Napoli non rimase altra scelta che affidarsi ai suoi santi e alle sue devozioni. Fu anche quella la causa del rapido divampare del contagio. Avvertimenti e contromisure di viceré e arcivescovo non sortirono effetto. In cinque mesi Napoli da «delitia d’Europa» divenne «sepolcro e cimiterio puzzolente». Le vittime furono circa 500.000, circa i 4/5 della popolazione.  

Tuttavia, anche in frangenti così drammatici, l’anima carnale di Napoli trovò il modo di esprimersi. A rendersi conto di questa realtà il nunzio apostolico genovese Giulio Spinola, in città dal 1653, ne colse cultura e sensibilità.
Le inadempienze delle autorità erano fuori discussione, corpi insepolti, negligenza nel bruciare arredi e oggetti delle case contaminate. Ma per il genovese una fonte impensabile di contagio veniva anche dalle reazioni dei familiari delle vittime, dai

troppi atti di humanità, che dettava la congiuntione del sangue fra parenti, in maneggiarsi, servirsi, abbracciarsi e piangersi i parenti fra loro, infetti o morti, senza riguardo alcuno.

E ancora: quando verso la fine di agosto cominciò a circolare in città l’assurda convinzione che l’epidemia si fosse arrestata al Borgo Santa Lucia al Mare

molti, portatisi sopra alcuni scogli, diedero quivi segni d’allegrezza con ricreationi di balli, canti e simili, essendosi fatto vedere per le strade anche il viceré. Veniva da molti biasimata tanta libertà popolare.

La voglia di vivere, per troppo tempo assopita, era esplosa: si ricominciava, libertà eccessiva, i napoletani esageravano. I concubini non si fecero attendere. Il vicario generale aveva chiuso l’ultima pratica il 13 maggio, in pieno allarme, poi seguì una pausa.
Ai primi di ottobre le più importanti istituzioni ecclesiastiche e autorità statali ricominciarono a funzionare.

Arrivò così il turno de concubini: il 6 novembre il provicario generale firmò una citazione, il 16 un chierico la notificò. I due, Filippo di Domenico e Ciomma Avellone, non risposero né alla prima intimazione, né alle successive. Al terzo rifiuto, il 24, arrivò la scomunica, con tanto di cedoloni. Che cosa avrebbero dovuto fare? Erano appena scampati alla peste, probabilmente stavano bene insieme. Se la tennero. (G. Romeo, Amori Proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Laterza, Bari, 2008)

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