Da Eduardo a Petito, da Viviani a Gogol: i primi trent’anni di Christian Izzo sulle tavole di un palcoscenico.
Carlo Avvisati
“Devo tutto a mia sorella Anna, che è dieci anni più grande di me: quando avevo tre anni, invece di mettermi a guardare i cartoni animati, passava le serate assieme a me a guardare le commedie di Eduardo, che lei aveva registrato di notte, dalla trasmissione ‘Palcoscenico 92’. Imparai così a usare il registratore per guardarle anche quando lei non c’era. Questo è stato il mio imprinting con il teatro”, rivela Christian Izzo, trentaquattro anni, stabiese, attore, regista e docente di teatro, premio Terre di Campania 2024, appunto per il Teatro.
Come ha cominciato?
“Ho iniziato per puro caso – continua – al teatro dei Salesiani di Castellammare di Stabia. Vede, mio padre era allenatore della squadra di calcio dell’oratorio e io, al contrario dei miei fratelli e cugini, che vi giocavano con buona tecnica, ero una vera schiappa. Anche perché ero abbastanza in carne, da ragazzo. Fu così che un pomeriggio scappai letteralmente dal campo e mi rifugiai nel teatrino dell’oratorio dove stavano mettendo in scena “Miseria e Nobiltà” di Scarpetta. Il bambino che faceva la parte di Peppeniello non era proprio portato e non riusciva a dire le battute. Io che avevo guardato centinaia di volte quella commedia mi misi a rispondere al posto suo, dalla platea. Peppe Avenia, che era il regist,a mi chiamò così sul palcoscenico… dal quale sino a oggi non sono mai più sceso”.
Con quali altri registi ha lavorato?
Ho cominciato a recitare con il gruppo di Avenia e ho avuto quale maestro Gianni Amato, molto legato alla maschera di Pulcinella; e infatti la nostra formazione era specifica su Antonio Petito e il suo Pulcinella. Un autore, Petito, che pensavo fosse molto conosciuto. E invece mi accorsi che quando dicevo che con il nostro gruppo “facevamo Petito” quasi nessuno sapeva chi fosse. Per fortuna, adesso Antonio Petito è stato riscoperto e rivalutato per quel grande attore che è stato, così come è stato apprezzato il suo Pulcinella. Ė stato questo il mio primo incontro con la grande maschera teatrale campana, che mi è entrata nel sangue e che porto in giro per il mondo. A diciotto anni poi ho fatto un provino con Armando Pugliese che nel 2009, alla reggia di Quisisana, stava allestendo “Padroni di barche” di Viviani e venni preso.
Lei è ben conosciuto sulle tavole dei teatri di tutta Europa, avrebbe mai pensato di raggiungere la notorietà da giovanissimo?
Resto sempre un poco estrano al concetto di successo e notorietà che è legato più ai media che al teatro. Vede, il Teatro è una sorta di officina continua nella quale si lavora duramente e non ci si può mai rilassare, anche un solo momento; un’officina in cui sei costretto ad attenerti sempre alle regole e alla disciplina. Non puoi mai concederti ai clamori del successo. Certamente quella di cui, per bontà altrui, godo, è una credibilità che mi sono costruito con l’essere ligio alla disciplina teatrale, perché da quando avevo ventiquattro anni ho cominciato a lavorare e a proporre i miei lavori anche all’estero, soprattutto in Europa.
Quanto è costata in termini di sacrificio e di sacrifici, questa vita?
Un poco tutto. Sono sempre stato un diverso… questa disciplina è abbastanza rara da trovare nelle persone della mia età e dunque il teatro mi ha sempre un poco escluso dai m omenti piccoli e grandi del quotidiano. Io sono stato quello che si doveva sempre alzare da tavola nei momenti meno opportuni, quello che doveva prendere un aereo nei momenti più improbabili perché doveva fare uno spettacolo o tenere delle lezioni da qualche parte, spesso nell’Est dell’Europa. E dunque mi è costato un poco tutto in termine di relazioni perché è complicato costruire qualcosa di stabile. Ė ovvio che questa disciplina contempli una vita abbastanza solitaria, molto impegno nello studio e una preparazione costante: tutti elementi che non lasciano tanto spazio al resto.
A suo avviso, i giovani che fanno, o che iniziano a fare, teatro possono avere un futuro?
Dipende da quello che loro intendono per teatro. Mi spiego: professionalmente il teatro è un mondo duro e avaro. Nel senso che oggi gli attori che vivono meglio sono quelli che fanno televisione o che si occupano di creare contenuti sui social media. Se si è disposti a sacrificare molto e ad accettare una vita nomade allora si può pensare di avere un futuro in questo campo. Guardi, se si intende il teatro come un media allora dico che è un media sorpassato. Se lo si intende come un luogo sacro, come un rituale necessario all’essere umano, allora, a mio avviso, il teatro è oggi ancora più indispensabile e prezioso, perché in un mondo che è così mediatico diventa il luogo dell’immediato, dove può accadere qualcosa di umano e di sovraumano.
Cosa pensa del premio Terre di Campania?
Sono davvero onorato di riceverlo. Quando ho avuto la comunicazione che mi era stato assegnato questo premio la sorpresa è stata davvero grande. Ne sono onorato perché non ho mai percepito che la mia attività fosse qualcosa di diverso da un lavoro. Io sono come il postino che porta le lettere… che fa il proprio lavoro con impegno e dedizione: perché mai il portalettere dovrebbe essere premiato? E comunque è veramente un grande onore per me, sia per i nomi che l’hanno ricevuto negli anni passati sia per quelli che ancora lo ricevono quest’anno: penso per esempio a Manila Esposito, medaglia olimpica. Ecco, questo riconoscimento mi rende felice e mi incoraggia a impegnarmi ancora di più per il futuro.
Progetti?
Sarò in Georgia, poi a Barcellona, nel 2025, per dirigere ‘Ispettore Generale’ una piece di Gogol; poi abbiamo il nostro spettacolo che girerà in Italia: Abruzzo e Benevento; da aprile 2025 saremo in Finlandia, ancora in Spagna, Georgia, Stoccarda, Lettonia. Gli scavalcamontagne non si fermano mai.
Immagine di copertina: credit Pino Finizio.