Clemente cipresso nel suo nuovo Il venditore di uova rotte ambienta nelle campagne casertane una crudele storia di speranza.

Il venditore di uova rotte. Il titolo sembra un ossimoro: come si possono vendere delle uova rotte? Che senso avrebbe, in tempi di perfezionismo ostentato e di cultura dello scarto?

Tanto per cominciare, ci troviamo nelle campagne del casertano. L’arco temporale va dal dopoguerra in poi. Raffaele Marticato, Filuccio, è un bambino “nato con la camicia”, il sacco amniotico integro, tradizionalmente ritenuto buon auspicio. Ne Il venditore di uova rotte , al contrario, questo presagio sarà invece un segno della feroce ironia del destino beffardo. Una ferocia assurda.

L’infanzia di Filuccio è segnata dalla povertà, ma scorre in maniera tutto sommato tranquilla. Filuccio, nonostante le fatiche, gli stenti e la crudeltà del mondo, si laurea in medicina e diventa uno stimato medico competente e altruista, punto di riferimento della sua comunità. Ricorda, sotto molti punti di vista, l’esperienza di Sergio, il protagonista del precedente romanzo di Clemente Cipresso, Frantumi di calma apparente. Ma già in queste prime pagine si delinea quella che è, a mio avviso, la più potente delle espressioni de Il venditore di uova rotte: descrivere la realtà della campagna casertana degli anni passati, facendocela “vedere” anche se non l’abbiamo mai vissuta. Un realismo assolutamente privo di retorica e mistificazione. Il vero realismo, insomma, che ha reso immortale tanta parte della nostra letteratura.

L’orrore, nella vita del protagonista, è sempre dietro l’angolo. Dopo aver subito un’aggressione di inusitata violenza, Filuccio sviluppa una malattia neurologica che lo porterà a perdere il contatto con la realtà.

Da questo momento, la sua vita sarà una quotidiana prova di resistenza, dove a sorreggerlo non saranno i polmoni e i muscoli, ma la speranza e l’attaccamento inossidabile alla vita.

I colpi della vita continueranno. La stessa malattia, anche se con conseguenze diverse, aggredirà Raimondo, il figlio di Filuccio. Il carico di sofferenza sarà raddoppiato, ma doppia sarà anche la forza di continuare a vivere. I due uomini, adesso, avranno un’arma in più: il legame tra padre e figlio.

Il venditore di uova rotte offre una quantità enorme di spunti di riflessione, che sarebbe impossibile anche solo elencare. Ne seleziono due, che probabilmente sono quelli in cui maggiormente risalta la penna di Clemente Cipresso.

Il primo, come anticipavo, è il realismo. Cipresso è capace di descrivere la campagna casertana del secondo Novecento tenendosi costantemente lontano dalla retorica, dal campanilismo, dalle nostalgie romantiche. Tutti i pericoli che spesso colpiscono questo tipo di narrazione e finiscono col rendercela sgradevole qui sono accuratamente evitati. Il venditore di uova rotte è una fotografia intensa della realtà. La massima intensità si raggiunge quando viene descritto il manicomio criminale di Aversa (l’autore consulta e cita a questo proposito fonti specifiche). Al di là delle violenze e delle condizioni di vita allucinanti, la costante del manicomio è la disumanizzazione dei suoi ospiti.  È veramente difficile imbattersi in reportage più crudi.

Il secondo punto da sottolineare è la descrizione della malattia mentale. O, meglio, la trasformazione in letteratura della malattia mentale. Come sappiamo, uno dei filoni più importanti della narrativa moderna è quello della letteratura psicologica. Ma molti autori (in particolare i russi e la tradizione del flusso di coscienza della letteratura ebraica) si spingono più in là, posizionando il punto di vista narrativo all’interno dell’uomo malato, descrivendo così la realtà allucinata che egli vede. Ne Il venditore di uova rotte questa strategia è usata con disinvoltura, complice anche la formazione medica dell’autore. Può non essere facile da seguire, soprattutto nel lettore che si aspetta una narrazione troppo disimpegnata, ma è la vera cifra del romanzo. Le pagine più pregnanti dell’opera evocano quei quadri delle avanguardie artistiche di inizio Novecento, in cui la dimensione onirica prende il posto del tempo, e gli incubi sostituiscono la realtà.

Ma a prendere il posto del tempo non ci sono solo gli incubi. La fragilità, rappresentata icasticamente dalle uova rotte, è in realtà l’involucro di una dimensione ludica e artistica, che offre, da sempre, la catarsi all’uomo che soffre. In questa dimensione i protagonisti troveranno la dignità e un nuovo senso della speranza.

Sciocco sarebbe credere che trovino la felicità, almeno non nelle sue forme più convenzionali. Se leggiamo Il venditore di uova rotte (edito da Algra Editore) capiamo che certe volte credere nella felicità è un lusso che non possiamo permetterci, ma capiamo anche che la felicità non è quella a cui siamo abituati a pensare.

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