Sei mesi che hanno segnato per sempre la storia partenopea: cos’è stata e cosa ha significato la Repubblica napoletana? Percorriamo gli avvenimenti più importanti dall’entrata di Championnet alla riconquista sanfedista e borbonica del Regno

Ci sono periodi, come quello rivoluzionario, in cui il tempo della storia è talmente accelerato che tutto sembra totalmente nuovo, e al tempo stesso tutto irrimediabilmente vecchio. È il caso dell’idea repubblicana, della repubblica come forma di governo. (Anna Maria Rao)

I Francesi erano dunque giunti a Napoli, ma questo cosa poteva mai significare, conquista o liberazione?
La sera del 22 gennaio i Francesi avevano ormai avuto ragione della resistenza popolare, il 23 il generale Championnet (1762-1804) varcava trionfante le porte della città alla testa della sua armata. Il generale ricoprì un ruolo piuttosto rilevante nella prima fase della storia repubblicana. Munito di idee giacobine e animato da un autentico spirito rivoluzionario, il generale francese fu in grado perfino di ammaliare una parte della avversa plebe napoletana, anche per merito della sua politica del compromesso. Ad esempio, per accattivarsi le simpatie popolari e per respingere così le accuse di irreligiosità che colpivano gli ambienti rivoluzionari, finse addirittura di credere al miracolo di san Gennaro che tornò a ripetersi anche nel periodo repubblicano. A Parigi non dovette piacere tanta autonomia politica al punto da farlo destituire dal comando dell’armata e fargli conoscere finanche una parentesi di detenzione.

A Napoli il patto tra Lumi e Rivoluzione fu più che mai vivido. La fetta più progredita e illuminata della élite partenopea aderì alla Repubblica in nome di un sincero slancio ideale. Protagonisti e repubblicani furono il giurista Mario Pagano (1748-1799), che redasse il testo della Costituzione (la quale però non ebbe il tempo necessario per entrare in vigore); la letterata d’origine portoghese Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), direttrice e redattrice del Monitore Napoletano; pensatori radicali come Vincenzo Russo, che lasciò la Repubblica Romana per prendere parte alla rivoluzione napoletana; giovani aristocratici come Gennaro Serra di Cassano e borghesi come il medico Domenico Cirillo o il giornalista Francesco Saverio Salfi. Anche tra le fila del clero, per lo più rimasto fedele ai reali, vi fu chi aderì, come il sacerdote Nicola Pacifico, che ebbe a combattere in una compagnia della Guardia Nazionale repubblicana composta in gran parte da ecclesiastici. Suscitò clamore, tra le alte sfere dell’esercito, l’appassionata partecipazione agli eventi bellici della Repubblica dell’ammiraglio Francesco Caracciolo.

Un’adesione trasversale che coinvolse i ceti medio-alti della società, alla quale però non corrispose un eguale favore tra i ceti popolari. A dispetto di ciò non mancarono assensi significativi, persino tra coloro che parteciparono poco prima alla difesa della città proprio contro i francesi, come nel caso del commerciante d’olio Antonio Avella, detto Pagliuchella, e del vinaio Michele Marino, detto Michele ‘O Pazzo, ambedue leader della resistenza antifrancese trasformati  repentinamente in entusiasti sostenitori della Repubblica per la difesa della quale si batterono fino alla fine. Ma il problema della distanza – culturale, politica, di mentalità – tra la classe dirigente repubblicana e i ceti popolari era concreto e ben evidente alle nuove autorità, difatti innumerevoli furono gli scritti e i discorsi pubblici tenuti in dialetto per agevolarne la comprensione a livello popolare.
Strumento di cui si dotarono i patrioti napoletani per educare il popolo ai valori democratici furono i cosiddetti catechismi repubblicani. Consistevano in testi brevi, organizzati in domande e risposte alla pari dei tradizionali catechismi impiegati nelle scuole di dottrina cristiana. Il fine era quello di illustrare il significato di espressioni nuove e incomprensibili al popolo, si pensi a termini come repubblica, libertà, democrazia, sottolineando come queste parole, o meglio questi valori, fossero in comunione con il Vangelo, violato da tempo dalla Chiesa cattolica ormai proiettata del tutto verso i beni materiali e orientata alla conquista del potere. Non fu un caso che a scrivere tali interventi furono il più delle volte gli ecclesiastici riformatori.

I contrasti che sorsero all’interno del fronte repubblicano e la miopia delle autorità militari francesi, in seguito all’allontanamento di Championnet, ostacolarono il governo nel varo delle sospirate leggi di sovvertimento della feudalità e nel acquisire risorse tramite la messa in vendita dei beni nazionali. I sei mesi di vita della Repubblica furono caratterizzati da una forte crisi economica e finanziaria, riavvicinando masse sempre più corpose della popolazione alla causa borbonica.

Nel frattempo in Sicilia Ferdinando IV nominava il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara (1744-1827) vicario reale:

Già all’inizio di febbraio del 1799 Ruffo sbarcò in Calabria, dove in breve tempo riuscì ad organizzare un esercito di contadini, significativamente chiamato esercito della Santa Fede. Ruffo faceva leva sulla loro fedeltà alla monarchia e alla Chiesa ma sfruttava anche il malcontento popolare per la mancata riforma agraria. La promessa di terra, che in realtà non aveva alcuna possibilità di realizzarsi in caso di ritorno dei Borbone al potere, fu una motivazione importante nello spingere molti contadini tra le fila del sanfedismo. (Massimo Cattaneo)

Quella del cardinale fu una vera e propria marcia trionfale verso Napoli. Tra marzo e maggio, Crotone, Matera, Altamura, Potenza; ai primi di giugno i sanfedisti, sostenuti dall’appoggio della marina inglese e da truppe russe, accerchiavano la capitale. Il 10 maggio la guarnigione francese posta a difesa di Napoli fu costretta ad abbandonare la città e i patrioti al loro destino, era il quadro bellico internazionale ad imporre tale strategia: le necessità della guerra nell’Italia del centro-nord spinsero i francesi a questa decisione.

L’attacco conclusivo fu sferrato il 13 giugno, a nulla valse l’ultimo disperato tentativo di resistenza dei repubblicani asserragliati a Castel dell’Ovo e a Castel Sant’Elmo, lo stesso luogo ove la loro avventura aveva preso inizio. I lazzari napoletani, associandosi ai sanfedisti, tornarono a dar sfogo alla loro feroce violenza, eludendo il controllo dello stesso Ruffo. La “caccia al giacobino” era ufficialmente aperta. Il 21 giugno fu siglata la resa dei due castelli: la capitolazione avrebbe dovuto garantire ai repubblicani una resa onorevole e la possibilità di salpare su imbarcazioni francesi salvando così la propria vita dalla reazione borbonica. L’accordo fu però violato poiché sconfessato dai sovrani in Sicilia, la cui brama di vendetta fu imposta al Ruffo dall’ammiraglio inglese Nelson giunto a Napoli via mare. Furono quindi la corte borbonica e Nelson, con l’appoggio dell’ambasciatore inglese Hamilton e dell’ambigua figura della sua giovane moglie Emma, e non Ruffo, i responsabili della mattanza che seguì la caduta della Repubblica a Napoli. Il cardinale, offeso e deluso, si fece da parte abbandonando ogni incarico politico e militare.

La restaurazione borbonica segnò la condanna per ben 120 patrioti a Napoli, oltre a 2000 condannati in esilio e trenta o quarantamila persone arrestate e detenute per ragioni politiche in tutto il Regno. In piazza Mercato trovarono la morte, per impiccagione o decapitazione, Pagano, Russo, Fonseca Pimentel, Cirillo, Serra di Cassano, il vescovo Natale. Esecuzioni che si protrassero per mesi, fronte una indemoniata folla che inneggiava al papa e al re, coniugando a mo blasfemo la fede con il disprezzo e la smania di morte. Spesso i cadaveri degli afforcati vennero lasciati ore intere a patire le ingiurie della ressa.

La durezza della reazione borbonica, con le sue esecuzioni spettacolari e migliaia di condanne al carcere o all’esilio perpetuo, e il tradimento delle capitolazioni voluto da Ferdinando IV, Maria Carolina e Nelson destarono forte impressione non solo in Italia e in Francia, ma anche in Inghilterra … Il caso napoletano divenne così un caso europeo, simbolo della tirannia e della ferocia che i rivoluzionari avevano inteso rovesciare. I giacobini napoletani furono da allora ricordati soprattutto per la loro morte. (Anna Maria Rao)

La strage dei patrioti, congiunta alle condanne di esilio, spazzò via una intera classe dirigente sancendo l’alba del declino del Sud Italia, l’avvio di quella questione meridionale con cui si sarebbe dovuta commisurare l’Italia unita dopo il 1861. Anche se va detto che per le centinaia di patrioti obbligati all’esilio o al carcere l’esperienza del 1799 risultò decisiva: fra di loro fu reclutato il personale politico e amministrativo del periodo bonapartista e murattiano, e sempre tra loro e i loro eredi germogliarono le idee e i movimenti liberali che caratterizzarono i decenni a venire dell’Ottocento.

Quella di Napoli era stata una rivoluzione passiva, orchestrata dall’alto delle armi francesi e da una minoranza di intellettuali locali, a differenza invece di quella francese, una rivoluzione attiva, in quanto fatta anche dai ceti popolari e priva di interventi esterni. Vincenzo Cuoco (1770-1823), nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, avrebbe incalzato una serrata critica sia agli eccessi della rivoluzione giacobina francese sia all’agire dei patrioti napoletani, accusati di astrattezza e impazienza, di distanza dagli effettivi problemi, dalla mentalità e dalla stessa lingua parlata del popolo. Una lucida e amara riflessione che indicava la storia della Repubblica Napoletana come una storia di incomunicabilità tra élites e ceti subalterni. I napoletani non avrebbero costituito una unica collettività, ma si mostravano divisi in due nazioni diverse per due secoli di tempo e due gradi di clima. A Napoli pochi erano divenuti francesi ed inglesi, e coloro che erano rimasti napoletani erano ancora selvaggi.  

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