Quale fu il ruolo del cardinale Ruffo nella riconquista borbonica del Regno e nella caduta della Repubblica napoletana? Eroe e valoroso paladino del re e della Chiesa o sanguinario reazionario e traditore della patria? Devoto e autentico condottiero seguace dei reali o capo di spietate e crudeli bande brigantesche?
Nell’Italia meridionale, i contadini non videro realizzarsi alcun vantaggio immediato alle loro durissime condizioni per opera del nuovo regime repubblicano: le norme che abolivano i diritti feudali e garantivano la continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (alla fine di aprile 1799). Fu agevole quindi per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare i contadini e guidare l’armata della Santa Fede (di cui facevano parte anche bande di briganti) contro la Repubblica giacobina. (R. Ago, V. Vidotto)
Risvegliare l’animo delle popolazioni in nome del re e della Santa Fede, addestrare un esercito, debellare nelle province il governo dei delegati repubblicani, invadere e riconquistare Napoli: il cardinale si preparava a un’impresa piuttosto ardua, pronto a salpare assieme ad altri otto compagni. Approdarono il 7 febbraio a Punta Pezzo, in Calabria, ove arruolarono il maggior numero di soldati tra le tenute di Bagnara e Scilla. Ruffo decise allora di promulgare un bando con il quale provò a spronare tutti i “cristiani del Sud” a prendere parte alla «crociata per difendere il re, la religione, la patria e l’onore della famiglia». Nel giro di un mese l’esercito della Santa Fede accrebbe straordinariamente, vi aderirono uomini di ceto sociale: preti, braccianti e contadini, ricchi proprietari, ladri e criminali della peggior categoria, tra i quali i celebri briganti Fra Diavolo, Mammone e Sciarpa. Un parterre di personalità sinonimo di assoluta e inevitabile tolleranza ad abusi e saccheggi.
Con le sue armate irregolari Ruffo procedeva spedito alla conquista dei maggiori centri della Calabria, per la gioia e l’ammirazione dei sovrani, nei quali si riaccese l’ardore della conquista e della vendetta sui francesi. La marcia delle truppe sanfediste illuminò di una viva speranza la popolazione calabra, specie la fetta più povera: l’auspicio era che la vittoria portasse un miglioramento alla vita economica e sociale, ponendo fine alle ragioni più immediate del caos amministrativo e delle frequenti ingiustizie inferte all’indifeso ceto popolare. Sebbene gli sforzi del cardinale, si vedano i provvedimenti diretti ad alleviare la crisi del commercio della sera e la correzione dell’apparato doganale al fine di proteggere tutte le attività commerciali sino ad allora piuttosto sfavorite, i Reali alla conclusione della guerra tradiranno le attese dei più.
Liberata la Calabria, l’armata sanfedista puntò dunque su Napoli. Il cardinale intendeva fare in fretta, il timore era quello di essere estromesso dagli inglesi che lo ritenevano inaffidabile se non addirittura un nemico. A fine maggio restavano in piedi pochissimi alberi della libertà, e Ruffo poté procedere verso Napoli, raccogliendo lungo l’itinerario il rinforzo di bande locali, ma anche di truppe regolari russe e ottomane. La capitale era in subbuglio: l’ammiraglio inglese Nelson aveva attuato il blocco sul porto; i repubblicani glissavano sull’arrivo dei russi e l’avanzare dei sanfedisti; aumentavano gli ammutinamenti, le prepotenze dei repubblicani, gli atti terroristici dei realisti, le atrocità del popolo ormai in collasso. I francesi si resero conto di non poter più supportare la città e di conseguenza optarono per la ritirata muovendo verso Caserta e Capua, lasciando solo un insufficiente manipolo di soldati nei castelli di Sant’Elmo e dell’Ovo. Tutto era propizio al dilagare delle milizie del cardinale: Ruffo e la sua armata giunsero a in città il 15 giugno del 1799. Napoli cadde devastata da saccheggi e indicibili violenze che si protrassero per diversi giorni.
Le idee della corte erano ben chiare, il cardinale non avrebbe dovuto stipulare patti onorevoli a favore dei francesi e dei rivoluzionari partenopei, tuttavia Ruffo, da navigato diplomatico, conscio di quanto fosse importante mantenere rapporti “pacifici” con i francesi, decise di avviare trattative per una tregua generale. Il cardinale andò oltre e venendo meno agli ordini impartiti dai suoi sovrani in più dispacci cominciò a sottoscrivere i patti per la capitolazione francese senza informarne la corte, così da consentire a repubblicani e filo francesi di poter scappare dal Regno eludendo qualsiasi tipo di vendetta. Il 21 giugno fu poi ratificata una capitolazione coi repubblicani che avevano resistito asserragliati nei castelli: fu garantita la vita ai prigionieri, accordando loro l’esilio nella Repubblica francese.
L’arrivo dell’ammiraglio Nelson, uomo di fiducia della regina, a Napoli, il 24 giugno, segnò la fine di ogni intento diplomatico: l’inglese non solo ritenne nulle le trattative tra i francesi e Ruffo, sancendo l’infamia delle stesse, ma decise di condannare a morte tutti coloro che ebbero parte all’esperienza repubblicana. Il 27 giugno il re ordinò a Ruffo di obbedire, scrivendogli: «Altrimenti sarebbe […] lo stesso che dichiararvi anche voi ribelle» (Battaglini – Placanica, 2000, II); mentre Acton gl’intimò di rientrare a Palermo. A quel punto, pur protestando, il cardinale dovette allinearsi, anche perché, poco dopo, il re fece la sua comparsa a Napoli. Il 21 luglio fu installata una giunta di Stato, la quale diede avvio a una sanguinaria repressione che si protrasse per diversi mesi, mentre tre giorni dopo Ruffo era degradato dal re – ansioso di rientrare in Sicilia – da vicario generale a «luogotenente e capitan generale» e messo sotto la tutela d’una «Giunta di governo»
I vincitori correvano sopra ai vinti: chi non era guerriero della Santa Fede o plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le strade e le piazze bruttate di cadaveri e di sangue; gli onesti, fuggitivi o nascosti; i ribaldi, armati ed audaci; risse tra questi per gara di vendette o di guadagni; grida, lamenti: chiuso il foro, vote le chiese, le vie deserte o popolate a tumulto. [ … ] Con tante morti per tutta Italia e nel mondo finiva l’anno 1799. (Pietro Coletta)
La conquista di Napoli per mano dei sanfedisti consentì, dunque, il rimpatrio dei Borbone e una ferocissima vendetta. A pagarne le conseguenze furono, tra gli altri, Mario Pagano, Vincenzo Russo, Francesco Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel. Un vero e proprio suicidio intellettuale per la nostra terra, un colpo mortale a ogni speranza di progresso civico e civile. Il tramonto prematuro della Repubblica diede spunto allo scrittore politico Vincenzo Cuoco per indirizzare sprezzanti accuse all’astrattismo dei patrioti e al carattere passivo della rivoluzione napoletana (nel celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, del 1801). L’episodio dimostrava ancora una volta la difficoltà di coinvolgere le masse contadine nella rivoluzione «borghese».
E Ruffo? Nel frattanto era partito per Venezia dove era in corso l’organizzazione per il conclave per l’elezione del nuovo pontefice dopo la morte di Pio VI. Tornato a Napoli, fu nominato ambasciatore presso la Santa Sede e consigliere di Stato. A Roma il neo eletto papa Pio VII gli affidò, invece, la soprintendenza alla Deputazione dell’annona e lo fece in due diverse circostanze membro della congregazione economica. Nel 1806 provò a porsi come mediatore con Napoleone Bonaparte: recatosi a Parigi tentò in ogni modo di evitare l’occupazione del Regno di Napoli con scarso successo. Tutt’altro, l’imperatore dei francesi lo volle presente al suo matrimonio con Maria Luisa d’Asburgo, nel 1810, e gli conferì la Legione d’onore nel 1813. Nell’agosto del 1823 prese parte al conclave che elesse Leone XII e sul finire di quello stesso anno tornò nuovamente a Napoli, ove trascorse gli ultimi anni di vita nella sontuosa dimora di famiglia, palazzo Bagnare, nell’odierna piazza Dante n. 89.
Morì a Napoli il 13 dicembre 1827 e venne sepolto nella cappella della sua famiglia, consacrata a Santa Caterina d’Alessandria, nella basilica di San Domenico Maggiore a Napoli.
Di solito Ruffo è silenzioso, accigliato e accetta di parlare [della campagna sanfedista] solo quando è di buon umore. Non abituato a raccontare, si interrompe spesso e antepone ai fatti astrusi dettagli locali conditi con oscure, per uno straniero, pronunce italiane. Ma quello che racconta, lo racconta splendidamente. Si arriva a immaginarselo con un’intensità e chiarezza che hanno dell’incredibile Senza dubbio è un uomo di spirito profondo e ancor più di carattere. È piccolo e cammina curvo, ha però un viso ovale, intelligente e delicato, compito fino nel più piccolo dettaglio, severo e astuto – se vuole – ma non in un modo meschino e ordinario. E non è né vile né adulatorio, non ha nulla delle maniere pretesche qui così diffuse, Semplice, al contrario, freddo piuttosto che premuroso. (Wilhelm von Humboldt)