I caciaroni li riconosci: sono quelli incredibilmente bravi in qualcosa, ma davvero troppo spassosi per prendersi sul serio. John Tammaro è uno di loro.
Scenario: giornata pessima, stress totale; arriva il fatidico messaggio, con allegato annesso. L’album di John Tamarro è qui. Ascolto i primi brani in religioso silenzio. Arrivo a Oh Mosè. La riascolto altre sei volte mentre il mio cervello, totalmente assuefatto, è in procinto di implodere, esplodere, ed implodere di nuovo. Mando il link a tutti i miei amici e poi proseguo nell’ascolto. Signori, la mia giornata era cambiata definitivamente.
È difficile stabilire cosa scrivere. Insomma, il lavoro prodotto è buono? Sì. E’ da consigliare? Sì. Ha qualcosa di particolare che possa incuriosire un’ampia fetta di pubblico? Assolutamente sì.
Proverò a costruire un discorso che possa portarvi, passo dopo passo, a scoprire meglio l’album Ippopotminaetnitopen (sì, si chiama così, e sì, è normale se riuscirete a pronunciarlo solo dopo un paio di tentativi…).
Partiamo con le questioni che, generalmente, potrebbero risultare più spinose: l’album (tecnicamente) com’è? La risposta è tanto semplice quanto banale, e mi porta a dire che è un lavoro compiuto nel migliore dei modi in più ambiti, partendo dall’aspetto prettamente musicale, con un sound che va dal blues, ad un rock davvero movimentato e ritmato, lasciando ampio margine ad arrangiamenti sufficientemente ispirati. Il tutto porta all’ottenimento di dieci brani ricchi e, soprattutto, orecchiabili e dotati di un proprio appeal.
Il punto su cui focalizzare la nostra attenzione, però, concerne non tanto l’indubbia cura tecnica che la band ha mostrato di avere, quanto piuttosto la loro estrema fantasia posta in ogni elemento della produzione: ad esempio, mai avrei pensato di poter dire che in un brano ci possa essere una sorta di plot twist (come nel caso di Belly Button Fluff) senza contare gli innumerevoli momenti in cui sentiremo, a fine registrazione, qualcuno tra i membri della band fare commenti o eventualmente anche godersi una sonora risata.
La ricchezza di questo album, dunque, si esplicita nel divertimento profuso in ogni canzone, sia nella fase di recording, sia probabilmente in fase di scrittura, data la natura estremamente goliardica dei testi. Non ci vuole essere ironia pungente, benchè meno una satira sprezzante; qui c’è solo voglia di suonare, e di trasmettere il divertimento di ognuno di questi capaci musicisti al loro pubblico.
I Better Call John, difatti, non sembrano certo pronti a prendersi sul serio, e ben venga tale aspetto! Sarà proprio questa loro aria spensierata, folle, e vagamente irritante (basti pensare alla copertina dell’album “appannata”, che mi ha fatto rimanere circa due minuti fermo davanti al PC, convinto che non avesse renderizzato correttamente l’immagine… una caratteristica geniale quanto infida) a porli in risalto nel panorama della musica italiana contemporanea.