I nuovi tesori archeologici emersi nell’area suburbana prossima alla città antica

di Carlo Avvisati

Tombe. Tante. Di epoca preromana. Dieci metri più in basso dell’attuale livello stradale. E poi, tracce di arature risalenti a qualche decina di anni dopo la terribile eruzione vesuviana del 79 dopo Cristo. La scoperta, meno di un mese fa, a Pompei, lavorando in quel cantiere finalizzato a opere per l’ammodernamento della Circumvesuviana, ferrovia secondaria campana che da più di un secolo mette in comunicazione le cittadine attorno al Vesuvio. Immediato l’intervento dei tecnici della Soprintendenza ABAP per l’area Metropolitana di Napoli, coordinata da Mariano Nuzzo, che si sono trovati difronte a elementi di assoluto valore storico, archeologico e antropologico. Innanzitutto sugli scheletri, che sono emersi indagando le sepolture, dai quali sono scaturiti numerosi interrogativi.

   

Chi erano quelle genti i cui resti presentano scheletri lunghi più di dieci centimetri rispetto alla media degli abitanti dell’area? E, da dove arrivano, considerato che le loro sepolture erano tutte ricoperte con anfore, del tipo di quelle usate per vino e olio, messe in sequenza testa – coda e in numero di sette? Alcuni dei bolli dei contenitori indicano una provenienza di area africana. Fenicia, si pensa. E tuttavia, il rituale di seppellimento è quanto mai unico e, a dire degli archeologi, mai prima attestato. Erano nordafricani? O, forse, di origine Osca?  Una serie di interrogativi che assieme ai resti umani di maschi, femmine e due fanciulli, la necropoli ha consegnato alla squadra di esperti. Se ne saprà di più quando le indagini paleo antropologiche sulle ossa saranno concluse. E ci diranno delle malattie e delle carenze minerali e vitaminiche che interessavano quelle genti e forse la loro origine territoriale. 

Altro elemento di grosso interesse, oltre all’ottima conservazione dei resti ossei, protetti per secoli dal microclima della falda acquifera in cui le tombe erano immerse, è l’estensione del cimitero. Secondo l’archeologa Simona Formola, funzionario responsabile dell’area, la necropoli, che risale a un periodo compreso tra il III e il I secolo avanti Cristo, potrebbe essere molto più ricca di tombe, arrivando al centinaio e oltre di sepolture. Molto, dunque, ancora da verificare, e da scoprire, leggendo le inumazioni e il loro contenuto. Che per adesso risulta molto povero e fatto di qualche moneta, un anellino, lacrimatoi e, appunto, le tante anfore. 

Di non secondario interesse per capirne di più sulle antiche tecniche di coltivazione e sulla messa a dimora di elementi vegetali e piante, è quel sistema di solchi e porche che è stato intercettato e ha rivelato, con il progredire degli scavi, la presenza di estesi campi arati e molto ben conservati al di sotto delle pomici del 79. Elemento che conferma ancora più come l’area fosse stata testimone del ritorno alla vita solo dieci, quindici anni dopo la catastrofe. Serviranno analisi palinologiche per individuare semi, piante, coltivazioni. E saranno avviate intese di cooperazione e studio con il Parco archeologico di Pompei, come rivela Nuzzo. A dimostrazione di quanto Pompei non sia solo quella all’interno della cinta muraria ma costituisca con il suo Ager, o area suburbana, un mosaico la cui lettura e comprensione è più complessa di quanto si possa pensare.    

 

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