Una città ribelle, una città mai doma: ecco allora alcune delle sollevazioni più importanti nella storia di Napoli dalla tardo antichità al XX secolo.
Chi è ribelle? Potremmo partire da questa semplice domanda. Colui che si ribella insorgendo armato contro l’autorità, o colui che rifiuti obbedienza, sottomissione, o ancora e più genericamente, colui che si mostra impaziente a costrizioni o imposizioni esterne, indocile, che oppone forte resistenza, che non si lascia vincere. Ostile, nemico, avverso. Quanti volti. Ma quali sono i tratti del ribelle napoletano? Come si è caratterizzata la ribellione nella Storia nostrana. Napoli è senz’altro ribelle, Napoli è una città ribelle!
E qui le regole sono più spesso vuote e le relazioni più spesso cieche. È come se le regole le avessero sempre imposte gli altri, dall’alto. Il potere. È sempre stato degli altri, straniero ed estraneo. Qui il potere il popolo non lo vuole. Lascia che sia estraneo per poter ribellarsi “alle autorità” che lo rappresentano. Si è sempre da quest’altra parte, “dal basso”. (Giuseppe Ferraro)
Napoli è senz’altro un luogo ove nulla è normale o così come appare; un luogo d’eccezione, un luogo dove tutto quel che si fa è eccezionale.
Elegantemente anticipato dalle parole del prof. Giuseppe Ferraro, il concetto è piuttosto nitido: il potere i napoletani non lo hanno mai voluto, il popolo qui è ribelle. Ed è la Storia ad esserne preziosa testimonianza: ribellioni alle regole, attimi e momenti senza seguito. Una città ribelle che estranea il potere ad altri perché incapace di governarsi (con la dovuta eccezione degli anni del Ducato) ma che vuole ribellarsi. Basti pensare ai monumenti dei re esposti in Piazza del Plebiscito, o Largo di Palazzo che dir si voglia, sono tutti di regnanti stranieri.
A Napoli si vive di relazioni, regole affettive, non codificate. Dovrebbe scatenarsi l’Inferno ogni giorno, non sempre è così. Le relazioni fanno da collante a una società senza regole, l’affettività ha valore sull’effettività. I rischi son tanti. Si è sempre all’apice tra le regole scritte e quelle non scritte. Fra il Diritto e il Giusto, fra la legalità e la moralità.
Nel Cinquecento ogni forma di rebellio veniva generalmente ricondotta al reato di lesa maestà, diversamente dalle posizioni più possibiliste espresse dai giuristi come Baldo e dalla dottrina tre-quattrocentesca. Per ribellione si intese sempre più dal XVI secolo la messa in discussione dell’autorità del principe, identificata con la messa in pericolo dello status republicae e della prosperitas republicae, soprattutto in un campo come quello del pagamento delle imposte. La ribellione veniva presentata come crimine di lesa maestà, crimine di patria tradita e combattuta, crimine di diserzione. (Angela De Benedictis)
Alcune sollevazioni importanti nella storia di Napoli:
615 d. C. Sull’esempio di Ravenna, Napoli si ribellò all’umiliante giogo imposto dall’imperatore d’Oriente, dandosi un governo autonomo nella figura di Giovanni Consino. Da Bisanzio giunse così un nuovo esercito che ripristinò la supremazia. Dopo una fase di insofferenze sempre più marcate, nel 661, i Napoletani convinsero l’imperatore ad abolire la carica di esarca e a nominare un duca, napoletano, nella persona di Basilio. Da quel momento, pur continuando a dipendere formalmente da Bisanzio, Napoli dispose di un governo praticamente indipendente, sviluppando gradualmente le caratteristiche di una struttura politica del tutto autonoma.
1207. Almeno in un prima fase, i rapporti tra gli Svevi e Napoli furono pessimi. Enrico VI viene ricordato solo per la sua ferocia ed avidità e per gli infausti provvedimenti adottati volti ad annullare ogni parvenza di amministrazione locale. Alla sua morte, avvenuta nel 1197, sul trono ecco Federico II, la città del golfo si sottrae al dominio svevo e, grazie ad una sua propria forza militare con a capo Goffredo di Montefusco, pone fine nel 1207 alle scorrerie della soldataglia tedesca trincerata nel castello di Cuma. Abbattuto il presidio svevo, il Goffredo impartisce una severa lezione ai tedeschi di stanza a Salerno; i villaggi della provincia napoletana non vengono più assaliti e depredati. La ritrovata autonomia della città di Napoli, come ai tempi del ducato, dura pochi anni, sino al 1215 allorché i Napoletani sono costretti a sottomettersi a Federico II.
1284. In seguito ai Vespri Siciliani, un evento pagato dagli Angioini con l’aver perso per sempre il dominio sulla Sicilia e voluto fortemente dal partito ghibellino guidato da Giovanni da Procida, intrapreso dai Siciliani soprattutto a causa del declassamento imposto a Palermo e all’isola a beneficio di Napoli, sempre per iniziativa dei ghibellini, si verificò una sommossa anche a Napoli, repressa però con l’aiuto dell’aristocrazia locale.
1509. Insurrezione messa a punto dalla nobiltà e dal popolo di Napoli per contrastare il tentativo di introdurre l’Inquisizione spagnola in città; dopo aspri tentativi gli Spagnoli son costretti a desistere dal loro proposito.
1547. Dopo tremende guerriglie tra popolo e milizie spagnole fallisce anche il secondo tentativo di introdurre l’Inquisizione a Napoli; il protagonista e la voce del popolo è Tommaso Aniello, costretto, alla fine, a prendere la via dell’esilio.
1564. Tumulti contro un terzo tentativo di introdurre l’Inquisizione a Napoli; gli scontri sono meno violenti poiché il viceré spagnolo, il duca di Alcalà, si affretta ad annullare il provvedimento.
1585. L’infelice decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il consequenziale aumento del prezzo del pane, causò una terribile carestia che sfociò in una brutale insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell’Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace, un ideale capro espiatorio. Starace, al termine di un’assemblea imposta da una moltitudine tumulante, fu giudicato colpevole per aver concesso il suo assenso, con gli altri eletti della città, all’esportazione di grano. Ma sarebbe meglio dire per non essere riuscito a evitarla. Pur malato e privo di forze, l’Eletto provò a mediare, ma non fece in tempo a far valere le sue ragioni. E pagò con la vita i suoi errori.
1647. Guidata da Masaniello, divampa l’insurrezione antispagnola a Napoli. Fu soprattutto l’alto livello della pressione fiscale a creare tensioni, divampando in una rivolta generalizzata, saldata dal malcontento popolare e le aspirazioni del ceto civile. Si contestava il mancato rispetto delle tradizionali libertà napoletane e l’eccessiva arrendevolezza dell’aristocrazia di fronte alle pretese spagnole. Il popolo sconfigge le truppe spagnole, devasta i palazzi dell’aristocrazia collaboratrice e costringe il viceré a rinchiudersi in Castel Nuovo. La mente politica della rivolta è Giulio Genoino, un avvocato di Cava dei Tirreni.
1648. Morto Masaniello, la rivolta non si arresta: guidata da Gennaro Annese, la sollevazione si estese al mondo rurale, che protestava contro l’oppressione della feudalità. I ribelli proclamarono la repubblica e chiesero invano l’intervento francese. In primavera, il connubio tra baroni e Corona fu in grado di mettere la parola fine all’esperienza rivoltosa.
1701. Scontri tra insorti e truppe spagnole nel centro antico della città in seguito alla fallita congiura del principe di Macchia.
1799. Un anno cruciale per la storia di questa città: in gennaio i ceti popolari e la Chiesa si oppongono all’ingresso in città delle truppe francesi di Championnet, mentre la gran parte del ceto borghese si schiera a favore dei napoleonici proclamando la Repubblica Napoletana. Sei mesi più tardi, con l’arrivo in città degli insorti sanfedisti del cardinale Ruffo, il popolo minuto si solleva e si apre la caccia, spietata, ai repubblicani.
1820. Con i moti liberali di quest’anno, e col golpe militare di Guglielmo Pepe, i Borbone si ritrovarono al centro di una nuova crisi. Ferdinando fu costretto a cedere: concesse la Costituzione e concesse la formazione di un governo liberale. Poi, però, fece appello alla solidarietà delle altre Corone europee e indusse l’Austria a inviare truppe per restaurare il vecchio regime.
1848. Ottenuta la Costituzione, i liberali chiesero modifiche e innalzarono barricate nei centri nevralgici della città: Ferdinando II prese dapprima tempo e poi represse la rivolta con il sostegno dei reggimenti svizzeri.
1943. Quattro giornate di Napoli. Gruppi di insorti, armati alla buona, si opposero al tentativo nazista di abbattere importanti opere pubbliche, fra cui l’imponente ponte di Santa Teresa. Gli scontri principali hanno luogo al Vomero e a Capodimonte. Anima degli scontri è un misterioso ufficiale dell’esercito italiano, che dopo la fuga dei tedeschi si dilegua senza chiedere medaglie o rivendicare meriti.
Ma questo spirito di ribellione ha un limite, come si può dedurre confrontando i diversi moti che hanno agitato il corso della nostra Storia: quello di restare personale, affettivo. Senza governo, senza coesione, ma con un alto grado di eccezionalità, non si mantiene, tende a ripetersi, eccezionale ma dispersivo, non riesce a saldare con gli altri spiriti per divenire corale oltre il moneto in si dà.
Il popolo il poter non lo vuole. Il popolo al potere si ribella. È sempre stato estraneo. Si accompagna alla prepotenza, alla hybris, è personale, monarchico e camorristico, prepotente, si sopporta, va evitato, va aggirato, giocato, irriso e subìto. Il popolo qui è ribelle, anche la rivoluzione dura quanto una stagione. Chiunque vada al potere, lo si elegge e disapprova il giorno dopo. (Giuseppe Ferraro)