Vicarìa: dieci canzoni per conoscere l’humanitas di una Napoli rock
di Francesca Vaccaro
Pubblichiamo volentieri l’intervista a Valerio Bruner, alla scoperta della Napoli dimenticata, realizzata da Francesca Vaccaro e pubblicata il 27 febbraio sul suo blog Lunja e le sue parole sommerse (lunjaparolesommerse.altervista.org)
Proprio dei poeti e dei cantautori è il loro essere profondamente radicati nella realtà più prossima, avendo però lo sguardo rivolto lontano: la loro capacità, cioè, di raccontare il loro “interno e il loro intorno” (come ha scritto Niccolò Fabi), senza mai adottare una prospettiva ristretta, ma riuscendo, al contrario, a intrecciare fili di storie apparentemente lontane, creando ponti tra persone e mondi diversi ma in fondo affini. Questo è il miracolo della letteratura, della poesia così come della musica: ed è anche la magia che riesce a ricreare Valerio Bruner, cantautore napoletano che, con il suo quarto album, Vicaria, pubblicato nella primavera 2023 per l’etichetta Santa Maria Sonora Records, riesce a tessere a ritmo di rock una fitta rete di legami tra Napoli e Londra, giungendo a trasportarci poi fino a New Orleans con Maronna nera, reinterpretazione di House of the Rising sun.
Vicarìa, fin dal titolo, è una dichiarazione d’amore per il suo quartiere, ma è molto di più: è il grido dolente di Napoli dimenticata, di un’umanità tormentata ma non senza speranza, che ricerca ostinatamente la bellezza, che s’incontra nei vicoli bui, dove la luce nasce solo dalle fratture più profonde. Con la sua voce calda e avvolgente, a tratti graffiante, Valerio Bruner ci invita ad entrare nei meandri più profondi dell’anima di Napoli e dei suoi figli che vivono ai margini, vite dimenticate che non trovano spazio d’espressione nella narrativa di una città da cartolina.
Lasciamoci quindi condurre, sulle melodie di Vicaria che fondono rock, folk e blues, alla scoperta di un’humanitas che non cessa di ricercare la luce attraverso le sue stesse ferite.
Foto di Arianna Di Micco Copertina a cura di Antonio Conte
Valerio, il tuo album Vicarìa è stato presentato nella primavera 2023 allo Spazio Forcella e, successivamente, al carcere di Secondigliano, alla presenza di un gruppo di detenuti ad alta sicurezza. Queste scelte, fortemente significative, testimoniano il tuo sguardo rivolto verso gli ultimi, verso tutte quelle sfumature che non rientrano nel ritratto di una Napoli perennemente assolata e gioiosa. In Priavamo a Dio canti: Ind’o scuro ‘e ‘sta cella penzo a chello ‘ca è stato…a comm’ero ‘na vota…a che so’ addiventato Chi sono i protagonisti delle tue canzoni e a chi si rivolgono? Potresti raccontarci la tua esperienza al carcere di Secondigliano?»
I protagonisti di Vicarìa sono gli ultimi, i dimenticati, gli sconfitti. È facile raccontare e cantare di chi ce l’ha fatta, ben altro sforzo è provare a dare voce agli esclusi, a quelli che non ce l’hanno fatta. Portare Vicarìa tra le mura del carcere di Secondigliano è stata un’esperienza profonda, che mi ha lasciato un segno indelebile così marcato che ho sentito l’esigenza, il bisogno di raccontarla nel dettaglio. Proprio per questo motivo il prossimo aprile uscirà l’e-book “Quel giorno nel carcere di Secondigliano” per la casa editrice Homo Scrivens, in cui ripercorro non solo l’esperienza del concerto, ma tutti quegli accadimenti, le riflessioni, gli incontri che mi hanno portato lì su quel palco quel giorno.
Fin dalla copertina dell’album, a cura di Antonio Conte, appare evidente il tuo legame viscerale con Napoli. Nella tua vita, però, c’è un’altra città che occupa un posto speciale: Londra. Cos’hanno in comune queste due città e cosa ti hanno donato in termini di esperienze biografiche e artistiche?
Londra e Napoli rappresentano per me un continuum umano e artistico, un cordone ombelicale al quale sono indissolubilmente legato. Entrambe, ognuna con la sua personalità, la sua dose di lacrime e sorrisi, rappresenta casa. Londra è la città in cui sono diventato grande, ho fatto le mie esperienze ed ho iniziato a gettare le basi per il lavoro che faccio oggi. Napoli è la madre, la città che amo e odio, dalla quale fuggo quando posso e alla quale voglio ritornare. Londra con le sue metro anguste che sfrecciano ogni secondo verso il nulla e Napoli con i suoi vicoli stretti dove il sole non arriva, sono culla di un’umanità appassionata, accogliente e spietata come ogni metropoli del mondo.
La Napoli che canti in Vicarìa viene musicalmente trasfigurata in Londra nella canzone Napule Chiamma, oppure assume i colori di New Orleans in Maronna nera, ispirata a House of the rising sun, che racconta la storia di una prostituta. Parlaci del connubio tra testi e musiche, tra tematiche e arrangiamenti musicali, che sono a cura di Alessandro Liccardo. Sembra che le sonorità rock si adattino bene a tratteggiare tutte le sfumature della tua Napoli di frontiera…
Per me Napoli è rock, è punk, è grunge, è blues. È naturale allora che canzoni iconiche del punk come London Calling, o il rock disperato di House of the Rising Sun, si plasmino alla perfezione sulla lingua napoletana. È stato questo il punto di partenza di Vicarìa, modellare questi classici della tradizione americana e britannica sulla vita quotidiana, i volti, i luoghi e le storie del mio quartiere per creare una fusione unica di testi e melodie che è diventata appunto Vicarìa. In fase di produzione e arrangiamento, fondamentale è stata la collaborazione con Alessandro Liccardo, che è il produttore artistico dell’album.
Vicaria è il tuo primo album in napoletano. Parlaci del rapporto con la tua lingua. Qual è il napoletano che hai scelto per le tue canzoni?
Il mio è un napoletano duro, senza orpelli né fronzoli. È il napoletano che si parla nella mia Napoli, l’antica Vicarìa che, credimi, non è la Napoli bene, scanzonata e spensierata, che va tanto di moda negli ultimi tempi. Per raccontare la realtà di questi luoghi, volevo e dovevo usare il napoletano del popolo, della gente comune, di coloro che combattono ogni giorno perché la vita ogni giorno li mette alle strette. È un napoletano sincero, autentico, onesto.
Nell’album sono presenti due collaborazioni con artiste napoletane: Marilena Vitale e Brunella Selo. Ti va di raccontarci qualcosa su queste due canzoni?
Con Marilena avevamo già collaborato durante le registrazioni de La Belle Dame #2 e da subito era nata un’intesa, artistica e umana. Tra le canzoni di Vicarìa c’è Ya No Me Voy, la versione in spagnolo di Sempe Ccà, canzone che ho scritto e dedicato a Mario Paciolla. Una versione che volevo incidere affinché la storia di Mario potesse arrivare in quei paesi hispano hablantes che lui amava tanto e in cui ha trovato la sorte vergognosa che gli è toccata. Marilena ha girato il mondo e conosce perfettamente lo spagnolo, quale occasione migliore di scrivere insieme e incidere questa versione di una canzone per me così importante? Brunella Selo è invece una delle artiste più grandi, belle e sincere che Napoli ha da offrire, un’anima grande ed una professionista come poche ne ho conosciute. Chiesi la sua collaborazione nel brano Tutto e Niente, che racconta di una signora del teatro napoletano che sta per dire addio alle scene dopo una vita trascorsa sulle assi del teatro. Mentre scrivevo il testo, avevo in mente una voce antica, viscerale, popolare che potesse cantare il ritornello e così contattai Brunella. Ci prendemmo un caffè a casa sua e, dopo aver ascoltato il brano, mi disse che le piaceva e avrebbe donato la sua voce. È stato un momento bellissimo, che custodisco con cura ed affetto.
Il brano conclusivo è dedicato a Mario Pacciolla, attivista e cooperante Onu. Cosa significa per te questa canzone?
Mario Paciolla è stato un amico e un collega dei tempi universitari, la finestra in un mondo in cui siamo stati ragazzi, spensierati e sognatori, che volevano cambiare il mondo con il loro lavoro. La sua morte, o meglio il suo omicidio, sono una macchia vergognosa su questi nostri tempi. Per lui, in ricordo della persona che era e per sensibilizzare l’opinione pubblica in modo che la sua storia non venga mai dimenticata come troppo spesso avviene per vicende scomode come la sua, ho scritto Sempe Ccà, la canzone che è presente a chiusura di Vicarìa, che è stata anche la colonna sonora del docufilm Come Fuoco, che ho prodotto nel 2022 insieme a Salvatore De Chiara, che ne firma anche la regia, ed Alessandro Liccardo. È il nostro contributo, indipendente ed autofinanziato, non solo per ricordare Mario ma anche per dimostrare come la musica, l’arte e la cultura possano diventare uno strumento potentissimo di resistenza e resilienza civica e sociale per le nuove generazioni, soprattutto in una città complessa come Napoli.
Per concludere, facciamo un piccolo salto nel passato: il tuo esordio artistico è avvenuto con la scrittura drammaturgica, in seguito ti sei avvicinato alla musica e hai iniziato a scrivere canzoni. Cosa significa, per te, narrare storie e in che modo queste due forme di narrazione, il cantautorato e la drammaturgia, si differenziano e sono affini? Qual è secondo te la motivazione che spinge l’essere umano da sempre a raccontare storie?
Raccontare storie è un’esigenza, un’urgenza. Non mia soltanto, dell’essere umano. Siamo nati per comunicare, confrontarci, entrare in contatto fisico e spirituale con l’altro. Raccontare storie è una parte di questa comunicazione. Da che ho memoria ho sempre amato scrivere, che fossero storie, racconti, poesie, testi teatrali, canzoni. Con il teatro ho trovato e capito quale sarebbe stato il mio percorso di vita, con la musica mi sono affinato e spianato il cammino che percorro tuttora. Sono un cantautore, un cantastorie, insomma vivo per e di questo.